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Avvenire e le foto fuorvianti che alimentano la confusione
NEWS 31 Agosto 2018    di Ermes Dovico

Avvenire e le foto fuorvianti che alimentano la confusione

Hanno fatto discutere in questi giorni due foto, dalla provenienza incerta, usate a corredo di un articolo di Avvenire del 27 agosto, riguardante un paio di filmati – non pubblicati dal quotidiano della Cei «perché troppo cruenti», ma consegnati alla magistratura – che documenterebbero le torture ai migranti nei centri di detenzione libici. Due differenti siti, che sono collocabili su posizioni politiche opposte (vedi qui e qui), hanno già spiegato il 29 agosto il carattere fuorviante delle immagini pubblicate da Avvenire e in particolare delle relative didascalie riportanti una dicitura simile: «Fermo immagine dal video dei lager libici». Sempre il 29 agosto il giornalista di Avvenire, Nello Scavo, che aveva firmato l’articolo con le due foto contestate, è tornato sull’argomento, chiedendo scusa per le didascalie ingannevoli, poi rimosse, e rilanciando riguardo ai video: «Nel creare la didascalia delle foto abbiamo erroneamente scritto che erano frame tratti dai filmati. Invece si tratta di foto, anche queste consegnate da alcuni richiedenti asilo. Cosa di cui ovviamente ci scusiamo. Ma i filmati esistono, sono drammatici e sono stati consegnati alla magistratura inquirente. Ed è di questi che parla il nostro articolo».

Delle due foto si era già occupato nel novembre 2017 un sito di fact checking («verifica dei fatti»), Snopes, scrivendo riguardo alla prima – un uomo di colore a petto nudo e legato – che era già «apparsa in due post nel blog italiano Social Popular News a febbraio e maggio 2017» e poi ad agosto 2017 sul blog Milano in Movimento, che l’attribuiva al fotografo Alessio Romenzi, il quale ha smentito di averla mai scattata. Non se ne conosce l’origine, insomma. La seconda foto – tre uomini appesi con una corda ai piedi e a testa in giù – si riferisce a un fatto riportato da un utente di Facebook e ripreso dal sito nigeriano Tori nell’ottobre 2017, in cui si presentano i tre come «presunti criminali selvaggiamente puniti» dopo aver a quanto pare seminato terrore facendo irruzione in una casa del Paese africano.

Dopo le critiche, Avvenire ha dunque chiesto scusa, anche se sarebbe bene segnalare in modo chiaro l’errore pure nell’articolo online originario, dove le didascalie erronee non ci sono più ma almeno fino al tardo pomeriggio di ieri permanevano le discusse foto, accompagnate da un semplice «leggi anche» riferito all’articolo del 29 agosto, il cui titolo (Libia. Altro che fake: i filmati delle torture ai migranti sono veri) si concentra sui filmati e sorvola sull’errore da cui tutto è nato.

Non è una questione di errore in sé, che può capitare a chiunque, ma il come viene diffuso (una didascalia la si scrive se si ha un riferimento; e in questo caso Avvenire, dichiarando di aver visionato i filmati, doveva sapere di non poterli collegare a quelle foto) e rispetto a un tema che è divenuto delicatissimo, in tempi in cui molti media liberal – compresa Repubblica, uno dei mezzi ad aver rilanciato le foto – gridano contro le fake news: se si vogliono davvero combattere le notizie fasulle, e non meramente usare l’espressione ormai di moda come un’arma contro chi la pensa diversamente da una certa cultura elitaria, le didascalie farlocche non rappresentano un bello spot. E hanno l’effetto di accrescere la confusione sul fenomeno migratorio, nell’ambito del quale non si possono certo negare situazioni umane di reale sofferenza, ma la soluzione proposta non può essere quella dell’accoglienza indiscriminata, che è proprio ciò che alimenta scafisti, morti in mare e violenze sui più deboli.

Le norme e il buonsenso distinguono tra persone che scappano da guerre e persecuzioni e hanno il diritto di essere accolte e altre che lasciano i propri Paesi d’origine per altre ragioni, spesso economiche, e rispetto alle quali i possibili Paesi ospitanti devono poter controllare i flussi, decidendo quante persone sono in grado di accogliere e tenendo conto del patrimonio culturale e religioso.

Questo buonsenso è ben espresso nell’insegnamento dei Papi che hanno parlato tra l’altro di un primario diritto a non emigrare «cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra» (così Benedetto XVI, richiamando un concetto già espresso da Giovanni Paolo II), secondo un pensiero condiviso da diversi vescovi africani che hanno esortato i giovani a rimanere in patria e ad aiutarne lo sviluppo (vedi qui e qui). Ed è ben riassunto nel Catechismo: «Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri» (CCC 2241).


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