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Auguri a Mogol: «Gesù fa bene». Il “poeta del reale” compie 86 anni
NEWS 17 Agosto 2022    di Valerio Pece

Auguri a Mogol: «Gesù fa bene». Il “poeta del reale” compie 86 anni

Ha scritto canzoni come piccoli film («Ancora tu / ma non dovevamo vederci più?»), senza mai disdegnare una certa ricercatezza: con lui le giornate, da noiose, sono diventate «uggiose», e le discese, da ripide, si sono fatte «ardite». Anche i suoi modi di dire sono entrati nell’immaginario collettivo, al punto che eserciti di giornalisti (pigri) chiudono ancora le loro fatiche affidandosi al famoso «lo scopriremo solo vivendo».

Il maestro Giulio Rapetti Mogol compie oggi 86 anni. In questa succosa intervista, il Timone ripercorre con lui le tappe più importanti di una vita intensa, carica di «intuizioni arrivate per grazia».

Mogol, non si può non partire dal “miracolo” della nascita di un testo.

«Quando scrivo una canzone cerco di capire il senso della musica, che cosa dice quella precisa frase musicale, perché ogni melodia racconta sempre qualcosa. Ad un certo punto, puntualmente, il testo mi arriva addosso, e la complessità delle rime e delle metriche all’improvviso scompare. Ha un po’ del miracolo, dice bene».

Intorno alla genesi dei suoi testi girano descrizioni di performance estreme. Sono vere?

«Ebbene sì. Lucio Battisti mi proponeva una nuova melodia e io, per sfida, buttavo giù i testi di getto. Ovunque fossi. Una volta, in auto verso Genova, presi carta e penna e in un quarto d’ora completai “Emozioni”. Per “E penso a te” ci misi un po’ di più: ero al volante di una 500, nel comasco. La sfida era terminarla prima di arrivare alla festa di famiglia a cui ero diretto. Ci riuscii».

Le sue canzoni fanno parte del dna degli italiani, com’è riuscito a inanellare così tanti capolavori?

«L’ho capito col tempo: la creatività è di Dio, noi dobbiamo costruirci una parabola ricevente. Mi stupisco sempre dei pezzi che scrivo, è come se non fossi io a scrivere le canzoni».

Ha raccontato che ha inventato poco, e che nei suoi testi c’è quasi solo vita vissuta. Davvero «al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti»?

«Da bambino le nostre condizioni economiche erano abbastanza modeste, anche perché quando sono nato i miei erano giovanissimi, 21 anni mia madre e 23 mio padre. Il più bello dei vestiti di mia madre era davvero quello “nero coi fiori non ancora appassiti”, e il carretto con l’uomo che “gridava gelati” lo ricordo benissimo, costavano 10 lire. La nostra casa, l’ultima prima della campagna milanese, era su una strada in cui passava una macchina ogni ora, se passava. Giocavamo a pallone coi nostri golfini per terra, a fare da pali, facevamo cose semplici. In quel contesto sapevo bene anche che dopo il 21 del mese era inutile andare a cercare soldi dai genitori».

È vero che ha spinto Battisti a cantare?

«Lui voleva fare solo le musiche. Lo pregai di provare a cantare sulle canzoni, anche perché sarebbe risultato tutto più credibile per chi ascoltava. Per convincerlo gli dicevo: “Ci stai se qualche canzone la diamo agli altri e qualcuna invece la canti tu?”. Fortunatamente mi diede retta».

L’ascoltò anche quando lei lo spinse a ritirarsi dalle scene.

«Sì, volevo proteggerlo. Erano gli anni delle contestazioni ai cantautori. Se non eri un autore “impegnato” e non ti schieravi, eri automaticamente fascista. Non volevo che Lucio che subisse quelle assurde e violente contestazioni».

Ma Battisti era veramente di destra?

«Macché! A Lucio la politica non interessava minimamente. Ripeto, sono voci nate dal fatto che non facevamo, come allora si usava, canzoni con testi politici di sinistra. Sembra assurdo ma è così, una volta l’obbligo era quello, noi invece parlavamo della vita, ci interessava quella, in tutti i suoi colori».

Qualche giornalista paranoico, nella sua “La collina dei ciliegi” ha visto addirittura un riferimento al saluto romano. «Planando sopra boschi di braccia tese» è il verso incriminato.

«Una forzatura totale. Le braccia alzate del brano invocavano la benedizione del Signore. I paragoni col saluto fascista sono assurdi. Se è per questo aggiungo che hanno insinuato che Battisti finanziasse la destra, hanno polemizzato anche sul «mare nero» della “Canzone del Sole”. Insomma, è difficile anche stargli dietro…»

Attraverso il Centro Europeo di Toscolano (CET), la scuola di musica che nel ’92 ha fondato ad Avigliano Umbro, lei ha formato una sorta di “discepolato artistico”. Il motto dice già molto: «Formare l’uomo per formare l’artista».

«Dalla sua fondazione abbiamo diplomato 2.500 allievi, tra cui Arisa e Giuseppe Anastasi, l’autore delle sue canzoni. In più collaboriamo con l’Università “Gabriele D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Al CET chiedo ai ragazzi innanzitutto una cosa: curare l’equilibrio interiore e una sana autostima, voglio che si salvino dalla distorsione del successo. Non a caso, insieme a mia moglie, nel Centro ho fatto costruire una bellissima cappella dedicata alla Madonna del Rosario. Se vogliamo un popolo con più Carità dobbiamo necessariamente lavorare e aiutare i più giovani».

Da un’altra sua folgorante intuizione è nata la Nazionale Italiana Cantanti.

«Capii che c’era un potenziale quando, nella prima partita che organizzai tra amici all’Arena Civica di Milano, arrivarono migliaia di persone. Ovviamente non si trattava ancora della vera nazionale cantanti, che nacque ufficialmente nell’81, l’idea però mi arrivò da quel pienone. Alla partita del cuore del 2000, all’Olimpico, riuscimmo a far stringere la mano a Yasser Arafat e Shimon Peres. Fu una reunion storica tra due premi Nobel».

Quell’anno la Partita del cuore era dedicata proprio alla pace in Medio Oriente.

«Sì, infatti la nazionale cantanti giocò con una selezione di giocatori israeliani e palestinesi. Entrambe le formazioni furono poi rinforzate da campionissimi. Ricordo Pelé, Platini, Beckenbauer, Cruiff, Baggio. La nazionale italiana cantanti è un unicum nel mondo, e la “Partita del cuore”, per anni trasmessa dalla Rai – spesso con la conduzione di un ironico Fabrizio Frizzi e poi di Carlo Conti – ha sempre fatto ascolti record».

Come spiega che per anni tanti cantanti, al primo fischio, sono corsi da lei?

«Sono artisti sensibili, sanno che lasciare il proprio orticello per qualcosa di più grande rende il cuore più felice, e poi riconoscono il valore e la bellezza di una compagnìa. Una volta, agli inizi, per pochissimo non avemmo in campo con noi anche Pier Paolo Pasolini, altro grande amante del pallone. Perse il treno o ci fu uno sciopero, in questo momento non ricordo. La cosa più importante è stata riuscire a raccogliere fondi per i più sfortunati, in 40 anni abbiamo avuto la grazia di aiutare tante splendide realtà».

A proposito di Pasolini, l’amministrazione comunale di Torino sta cercando di vietare dei manifesti (regolarmente affissi da Pro Vita) in cui un suo virgolettato sottolinea quanto lo scrittore fosse contrario all’aborto.

«Se è vero che l’argomento è delicato, nel momento in cui uno scrive un pensiero e lo firma, come ha fatto Pasolini, è anche vero che ha tutto il diritto anche di farlo conoscere. Trovo sbagliato proibire ad un grande intellettuale un suo punto di vista, specie ora che non c’è più. Gli si fa un torto. Si può non condividere ciò che dice, ma censurarlo mi sembra davvero eccessivo».

Tornando a Battisti, nei suoi ultimi giorni, quand’era già in ospedale, lei gli scrisse una lettera che affidò a un’infermiera.

«Sì, andai a trovarlo ma non mi fecero entrare. Lasciando in calce al biglietto il mio numero telefono, gli scrissi queste parole: «Caro Lucio, spero che i giornali esagerino come sempre, però se hai bisogno io sono qui». Non seppi se l’aveva ricevuto oppure no fino a dieci anni dopo, quando scoprii che un medico gliel’aveva consegnato. Mi raccontò che vide Lucio, in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, leggerla e poi mettersi a piangere. Ogni giorno prego per lui».

La fede è mai entrata nelle sue canzoni?

«Riascolti “Anche per te”. Lì c’è molto».

A maggio l’abbiamo vista fare da padrino alla celebrazione dei 150 anni del Corpo degli Alpini.

«Sono stato molto colpito dalla gioia e dall’attaccamento degli alpini al nostro Paese. Le trentatré fanfare che ho avuto l’onore di dirigere allo stadio “Romeo Neri”, il lungo corteo, le bandiere dei Reggimenti, le famiglie, i bambini, sono stati uno spettacolo unico. Dobbiamo tornare tutti ad amare di più la nostra cara Italia, e in questo gli alpini ci sono da esempio».

Che impressione le hanno fatto le accuse fatte agli alpini di certe femministe? Si sono risolte nel nulla, ma per settimane hanno occupato le pagine dei giornali.

«Dico solo questo, nella tre giorni sono arrivate a Rimini oltre 400.000 persone festanti. Magari qualcuno avrà fatto un complimento a una bella ragazza, ma è impensabile squalificare gli alpini e la loro grande storia per qualche complimento. Di un filo d’erba i giornali hanno fatto un prato. Siamo onesti, non valeva neanche la pena citare il caso».

Un suo parere sulla musica di oggi?

«Oddio, se penso al rap, è ostacolato dal fatto che non c’è la melodia, è ritmica e parole. Non dico quindi che è come una barzelletta, che ascoltata la terza volta non fa più ridere, in ogni caso è un po’ limitante. Si può dire? Il problema vero, però, sono le radio».

Cioè?

«Una volta le canzoni da mandare le sceglievano i disk jockey, cioè gente preparatissima, ora il criterio è diventato il numero di follower che ha un certo cantante. Non so però una canzone scelta così rimarrà nella storia».

Qual è l’ultima canzone che ha scritto?

«Si chiama “Un vero amore”, la musica è di Gianmarco Carroccia, l’artista che somiglia incredibilmente a Battisti con cui giro l’Italia con lo spettacolo “Emozioni”. Parla di un uomo che conosce una donna e le confessa di essere desideroso di creare i presupposti per un grande amore. Il senso è: non so se la cosa ti interessa oppure non devo pensarci più, se ti interessa possiamo continuare a parlarne. Propone la costruzione di un amore, sociologicamente è interessante. In un mese il video ufficiale ha avuto oltre 150.000 visualizzazioni su Youtube, ora toccherebbe alle radio rilanciare il brano».

Sa che anche Papa Francesco è del ’36?

«Essendo lui nato il 17 dicembre, ha esattamente 4 mesi meno di me. Tra l’altro Papa Francesco, un Papa straordinario per semplicità e umiltà, mi ha mandato una bellissima lettera di ringraziamento per il libro di aforismi che gli ho regalato, Le ciliegie e le amarene».

Di che si tratta?

«Premetto che la forma poetica che oggi preferisco è l’aforisma, forma con cui in due parole puoi raggiungere il cuore. Papa Francesco, in una lettera autografa che conservo gelosamente, ha definito il mio libro – bontà sua – “un compendio di saggezza”. Mi ha scritto – ripetendolo anche a padre Antonio Spadaro, che gli ha materialmente consegnato il mio libro – che un preciso aforisma gli ha fatto “bene al cuore”».

Possiamo sapere quale?

«Quello in cui scrivevo: “Come due fratellini disegnano la stessa mamma in due modi diversi, così gli uomini Dio”».

D’ora in poi si riposerà. Giusto?

«Neanche per idea. Stiamo ultimando la costruzione, qui in Umbria, di un Centro di prevenzione primaria. Non la secondaria, che serve a curare, bensì quella che non fa ammalare. Spendiamo 75 miliardi all’anno per le cure, troppo, è ora di cambiare. Il comitato scientifico è composto da 24 scienziati, molti dei quali sono Primari dei più importanti ospedali italiani. I saperi che sono emersi li metteremo poi a disposizione di tutti. Le dico una cosa che forse la sorprenderà».

Prego.

«Tutto quello che ha detto Gesù Cristo fa bene alla salute: avere la fede, praticare il digiuno, fare gesti di carità, pregare. Sono tutte cose che fanno benissimo, lo dicono gli studi scientifici. C’è un detto popolare che trovo verissimo: “Il Signore è grato subito”. Il centro si chiamerà “La Rinascita”, verrà presentato da Gianni Letta in una conferenza stampa a fine settembre».

Nel giorno del suo compleanno, una domanda sfrontata: che rapporto ha Mogol con la morte?

«Guardi, è semplice. Noi non abbiamo chiesto di nascere, eppure, nascendo, abbiamo ricevuto subito carezze, baci, amore. Il nostro destino è tutelato dal Signore, per cui la morte non va temuta. L’uomo ne ha paura perché entra in una dimensione che non conosce, è comprensibile, ma dobbiamo essere certi che il Signore non ci abbandonerà. Dunque, avanti e nessun timore».

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