«Domani, caro André, il dolce appellativo di fratello che mi hai dato acquisterà un significato ancora più profondo». Era il 30 marzo 1897 quando Aubrey Beardsley confidò all’amico André Raffalovich di voler diventare anch’egli cattolico. La decisione, tutt’altro che improvvisa, era l’esito di un percorso di avvicinamento alla fede che l’artista aveva intrapreso da diversi mesi, mentre tutta Londra omaggiava il suo talento come illustratore. Il 31 marzo venne battezzato da Padre Bearne che lo accolse ufficialmente nella Chiesa di Roma.
Quello che in seguito Beardsley avrebbe definito il passo più importante della sua esistenza fu l’ultimo nobile gesto di una vita eccezionale, stroncata prematuramente dalla tubercolosi. Morì infatti l’anno seguente, nel 1898, a soli ventisei anni.
Come quella di molti esponenti del decadentismo britannico, anche la parabola biografica di Aubrey Beardsley si svolse sul ciglio del burrone, costantemente in bilico tra peccato e riscatto. La sua è la storia di un uomo che spese la maggior parte dei pochi anni che trascorse su questa terra nel fango dell’immoralità, ma che, infine, seppe mettersi in discussione per tornare a guardare fiducioso quel Cielo a cui la malattia lo stava avvicinando rapidamente. In questo la sua vicenda fu del tutto simile a quella di letterati coevi del calibro di Oscar Wilde, Ernest Dowson, Lionel Johnson, John Gray e Robbie Ross.
Lavoratore indefesso e dandy incallito, Beardsley cominciò la sua scalata all’Olimpo dell’arte in giovanissima età. A scuola, tra noia e sbadigli, trascorreva le ore decorando i libri di testo con numerosi disegni. Maturò presto una spiccata vocazione per la letteratura, la musica e la pittura. Al pianoforte era un vero talento e si dilettava nella composizione di poesie satiriche; negli anni della maturità tentò anche di completare un romanzo erotico, Under the Hill, pubblicato postumo nel 1959.
Le scarse finanze a disposizione della famiglia costrinsero Aubrey e la sorella Mabel a terminare bruscamente gli studi e a cercarsi un lavoro. A 16 anni Beardsley venne assunto in una compagnia di assicurazioni. La sera, dopo essere riemerso dai cumuli di scartoffie dell’ufficio, continuava a cullare il sogno di diventare un illustratore di successo riempiendo fogli su fogli di schizzi, ritratti e delicati florilegi.
Fortunatamente, però, quella routine purgatoriale durò poco: i suoi disegni vennero notati dall’anziano Burne-Jones, pittore pre-raffaelita – all’epoca un’istituzione – che riconobbe in lui i tratti del genio. Da quel momento per Beardsley si spalancarono le porte dei circoli artistici della capitale e la sua carriera fu costellata da continui successi. Dopo aver collaborato alla rivista «The Studio», divenne famoso nel 1893 per aver illustrato la Salomé di Wilde. Si lanciò in seguito nell’avventura dello «Yellow Book», periodico simbolo dell’estetismo tardo-vittoriano, per poi approdare al meno fortunato «Savoy».
Il suo stile grafico, che molto doveva all’arte giapponese e che ispirò in seguito l’avanguardia simbolista, si basava su una linea elegante, modellando composizioni in bianco e nero. Il dialogo tra i pieni e i vuoti, tra le piatte campiture d’ombra e le trasparenze, fungeva da cornice entro cui far muovere silhouette, Pierrot ridicoli e donne avvizzite. Il bizzarro demoniaco conviveva con l’istinto decorativo tipico del periodo (a ricordare che anche nell’arte figurativa, e non solo nella letteratura, l’ornamento valeva quasi più del contenuto). Su di lui Oscar Wilde scrisse: «Ha contribuito all’arte inglese con una strana nuova personalità, a suo modo era un maestro della grazia fantasiosa e del fascino irreale. La sua musa ha momenti di terribile ilarità. Dietro al grottesco sembra celarsi una curiosa filosofia».
Non meno controversa della sua arte, volutamente sfacciata e provocatoria, fu la condotta pubblica. Sul suo conto circolavano inquietanti aneddoti a proposito di relazioni intrattenute con donne e uomini; qualcuno sosteneva persino che fosse invischiato in un rapporto incestuoso con la sorella. Se gli esteti lo consideravano una sorta di mito incarnato, i benpensanti non perdevano occasione per metterlo alla berlina. Non a caso, quando lo «Yellow Book» venne coinvolto nelle polemiche causate nel 1895 dall’affaire Wilde, Beardsley fu uno dei primi ad essere allontanato dalla redazione.
È a questo punto, a metà tra il pentimento e il desiderio di prendere le distanze dalle luci della ribalta e dai traditori, che il povero Aubrey iniziò seriamente ad accarezzare l’opzione cattolica, confermata solennemente due anni più tardi. Fu una svolta importante di cui fu principale artefice proprio Raffalovich (a sua volta convertito dall’ebraismo).
Mosso dall’entusiasmo del neofita, Beardsley pensò di dare il via a una nuova rivista, «The Peacock», una voce cattolica che coniugasse l’arte moderna e la fede. Quello che sulla carta avrebbe potuto costituire un esperimento interessante, una piccola rivoluzione all’interno del panorama culturale inglese, purtroppo non superò mai la fase di progettazione.
Intanto la tubercolosi avanzava. Beardsley, col passare del tempo, fu così costretto a ritagliarsi spazi di riposo sempre maggiori e a staccare di frequente dal lavoro.
Fu forse la rassegnazione a un male incurabile la scintilla che lo spinse tra le braccia di Pietro. Non meno importante, dovette capire che la religione era l’unico modo per essere veramente originale nello squallore dei bassifondi, estranei alla rigida (e ipocrita) morale vittoriana.
Prima di morire, a ennesima dimostrazione della sincerità della conversione, chiese – purtroppo invano – che tutti i suoi disegni immorali venissero distrutti.
Sul conto di Aubrey Beardslery ai posteri rimane un solo rammarico: chissà quali capolavori avrebbe potuto creare se fosse vissuto più a lungo, se la fiamma del suo talento non si fosse estinta anzitempo. Eppure tutto questo, a ben pensare, conta poco; non solo perché con i “se” e con i “ma” non si fa la storia, ma soprattutto perché il Cielo è una ricompensa che supera ampiamente le gioie passeggere della gloria terrena.