Le parole sono strumenti potenti. E lo sa bene chi vuole modificare la sostanza delle cose. È successo così che la parola “madre” è diventata di troppo perfino in contesti dove sembra scontata. Uno di questi è certamente l’allattamento, che, concedetecelo, se non riguarda madre e figlio non sappiamo proprio chi dovrebbe riguardare.
Cinque consulenti volontari del più grande gruppo di sostegno all’allattamento al seno d’Australia – Australian Breastfeeding Association (Aba) – hanno lasciato il loro posto di lavoro dopo che i colleghi si sono lamentati dei loro post sui social che includevano «un uso quasi ossessivo della parola madre». E, se questo non dovesse bastare, aggiungiamo pure che sette volontari a lungo termine son stati indagati dall’associazione stessa per aver commentato con parole come «madre» o «allattamento» i post originali che prevedevano l’uso tassativo di «genitore» e di un tono rigorosamente neutro.
Sembrerebbe che questo tipo di linguaggio così “schierato” rientri nel campo delle intimidazioni e del bullismo. Secondo The Age e The Sydney Morning Herald i denuncianti hanno affermato che «l’uso quasi ossessivo della parola madre suggerisce che gli altri non sono i benvenuti nell’Aba».Le indagini hanno spinto 37 membri dell’associazione, tra cui due ex membri del consiglio, a scrivere al consiglio che le denunce erano «frivole e ingiustificate». I membri hanno chiesto un’indagine esterna e le scuse agli indagati. Una nuova politica linguistica, ecco la proposta che dovrebbe mettere d’accordo tutti. Ma proprio tutti. Anche chi il latte, con buona pace di chi afferma il contrario, non può produrlo.
L’Aba non è la prima organizzazione per l’allattamento al seno e l’assistenza materna e infantile a vivere questo tipo di dissenso sull’uso delle parole. Di recente, i leader della Leche League – la più grande organizzazione mondiale per l’allattamento – hanno scritto al consiglio di amministrazione segnalando le modifiche della politica linguistica in ben 89 paesi: l’uso di termini come «latte umano» invece di «latte materno».
Madeleine Munzer, ex consigliere della Leche League e membro del comitato di difesa globale, ha dichiarato: «Le donne che non hanno l’inglese come prima lingua o hanno una bassa istruzione o alfabetizzazione sono in generale meno propense ad allattare, per questo devono essere in grado di comprendere le risorse dell’allattamento. Rendere le informazioni più complesse con parole come “genitore che allatta” o “allattamento al latte umano” potrebbero rendere la comprensione più difficile». Queste azioni diventano così «oppressive e colonialiste», parole della Munzer.
L’agenzia di promozione della salute Lgbt Acon ha affermato che questo nuovo linguaggio finalmente non esclude nessuno. «Trovare spazio per i gruppi di popolazione che sono stati tradizionalmente esclusi o hanno affrontato ostilità quando hanno accesso alle cure è una cosa grandiosa», ha affermato un portavoce. Grandioso. È davvero grandioso osservare questo processo, neanche troppo lento e sottile, che mira a colpire la naturale missione della donna. E so di aver usato nella stessa frase due parolacce: naturale e donna.
È l’ora di ammettere che la nostra società è intrisa di contraddizioni, dove la presunta uguaglianza è solo l’altra faccia della discriminazione. Dove parole come “inclusione” devono farci drizzare le orecchie. Dove madre e padre possono scambiarsi con facilità. Dove la minaccia più grande è proprio una madre che allatta un figlio: perché è l’immagine che più di tutte afferma con forza una verità ormai proibita: l’uomo è l’uomo e la donna è donna.
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