L’anno nuovo non sembra purtroppo aver portato aria nuova. Non ad Hong Kong, almeno, dove la prima marcia pro democrazia del 2020, avvenuta nelle scorse ore, si è conclusa nel peggiore dei modi. Infatti non solo si è verificato il solito «balletto di numeri» – un milione di persone in piazza, appena 60.000 secondo la polizia – ma ci sono stati nuovi arresti. E pure parecchi: si parla di 400 persone. Ufficialmente si tratta di manifestati arrestati per aver lanciato molotov, mattoni, pietre e aver vandalizzato qualche negozio legato alla Cina, oltre a una sede dell’Hong Kong e Shanghai Bank; è tuttavia chiaro come tutto ciò sia l’ennesimo campanello di allarme di una situazione già rovente e sempre più tesa. Il Primo piano del Timone di gennaio è dedicato proprio alla situazione a Hong kong e in Cina, con un focus sulla realtà dei cattolici cinesi.
Basti pensare che, negli ultimi sette mesi di protese e disordini avvenuti nei vari distretti di Hong Kong, le forze dell’ordine hanno proceduto ad effettuare circa 7.000 arresti. Un’enormità, che ha rafforzato l’impressione – anche sul piano internazionale – di un insopportabile deficit democratico. Prova ne sia l’appello che 38 tra legislatori e leader di 18 Paesi hanno inoltrato in questi giorni all’attenzione di Carrie Lam, 4º capo esecutivo di Hong Kong, al fine di favorire l’istituzione di una indagine indipendente sull’uso della forza da parte della polizia nelle proteste in corso.
Tale richiesta viene avanzata alla luce delle dure repressioni (a colpi di cariche, gas lacrimogeni e spray al pepe) a danno delle manifestazioni di protesta di questi mesi; repressioni che, si legge in questo appello, lasciano «inorriditi». Al momento non è chiaro come – e se – la politica hongkonghese risponderà a tale accorata richiesta, ma gli estensori di questo appello sono stati chiari: se non verrà consentita l’apertura di una indagine indipendente, si farà in modo che tale indagine prenda avvio a livello internazionale.
Una richiesta decisa, dunque, e autorevole. Basti ricordare che tra i firmatari figurano pezzi da novanta come John Bercow, ex oratore della Camera dei Comuni britannica, Malcolm Rifkind, ex segretario agli esteri britannico, il cardinale Charles Maung Bo, presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche, Alissa Wahid, figlia del defunto presidente indonesiano Abdurrahman Wahid e politici di Australia, Canada, Irlanda, Lituania e Stati Uniti.
Ciò nonostante, alle condizioni attuali appare remota l’ipotesi che il regime cinese possa concedere quella libertà tanto desiderata dai giovani hongkonghesi. Il governo dell’ex colonia britannica ha risposto a stretto giro all’appello: «politici o organizzazioni straniere non dovrebbero interferire in alcun modo con gli affari interni».
Ma che le richieste di libertà e democrazia difficilmente verranno ascoltate lo si può affermare anche alla luce di sviluppi recenti e abbastanza inquietanti su altri versanti, come quelli che hanno visto la recente ufficializzazione di nuove misure amministrative per i gruppi religiosi, che verranno ancor più sottomessi al Partito comunista cinese.
Si tratta, in breve, di nuove disposizioni – che verranno attuate a partire dal 1° febbraio 2020 – che prevedono che tutte le attività, i raduni e i programmi delle comunità religiose debbano avere l’approvazione dell’Ufficio affari religiosi. Ora, è vero che le proteste di Hong Kong, pur avendo una buona componente cristiana che le condivide e appoggia, vertono su altri temi, ma dato che il regime con cui si fa i conti è il medesimo, l’inasprimento dei controlli sulle organizzazioni religiose fa pensare che, per la Cina, il tempo della libertà sia ancora lontano. Purtroppo.
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