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“Alla base c’è una crisi di fedeltà personale”
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3 Marzo 2019

“Alla base c’è una crisi di fedeltà personale”

Lo scandalo degli abusi del clero e nel clero rispecchia, inevitabilmente, una più ampia crisi della Chiesa contemporanea, insieme al calo delle vocazioni e a tanto altro. Ora, rispetto a tutto ciò il fedele è spesso posto di fronte a una tentazione: quella di offrire per ciascuna di queste singole criticità una soluzione particolare e, soprattutto, strategica. Come se la crisi della Chiesa fosse, in definitiva, qualcosa di politico e di sanabile a colpi di riforme, tavoli di lavoro, confronti interni. Ma le cose non stanno affatto così. Anzi.

Ne è convinto l’arcivescovo Jose Gomez, di Los Angeles, il quale intervenendo sul summit vaticano sugli abusi, nei giorni scorsi, ha posto l’accendo su quello che a suo avviso, e neppure solo suo in realtà, è il cuore del problema: la fede, o meglio la mancanza di essa. «Questa crisi nella Chiesa», ha affermato monsignor Gomez, «è una questione di responsabilità e trasparenza. Ma soprattutto, alla base, c’è una crisi di fedeltà personale». Fedeltà a chi? Ma a Gesù, naturalmente. «E’ una crisi che deriva dal non seguire Cristo e, di conseguenza, dal non vivere come Lui ci insegna», ha aggiunto a questo proposito.

Sono parole di un certo peso, specie se si considera che a pronunciarle è stato un prelato alla guida della più grande dell’arcidiocesi negli Stati Uniti, il quale ha pure formulato l’augurio che l’ormai prossima Quaresima possa essere un momento di riconsacrazione per tutta la Chiesa, affinché si «possa tornare veramente cristiani, perché solo tornando a Gesù i nostri cuori si possono aprire verso la sanità e l’amore che Egli ci chiama a vivere». Con tutto il rispetto per le analisi pastorali e sociologiche, sembra dunque dirci monsignor Gomez, o si torna ad essere ardenti seguaci di Gesù Cristo oppure tutto quanto è vano.

Un ammonimento che, a ben vedere, ricorda quelli di tante figure grandiose della storia Chiesa, inclusi i santi, tra i quali non mancano richiami alla necessità di un clero più credibile in quanto più credente (prima di essere credibili occorre essere credenti). «Perché così poca gente s’allontana dai vizi pur sentendo tante prediche? Sapete cosa penso io?», domandava per esempio 500 anni fa santa Teresa d’Avila, «che i predicatori hanno troppa umana prudenza e non bruciano di quel gran fuoco d’amore di Dio di cui gli Apostoli erano invece ardenti. Non pretendo che siano così infuocati, ma solo un po’ più accesi». D’accordo, ma cos’è la fede? Come si può definire questo «gran fuoco d’amore di Dio» di cui già da secoli i più fedeli servitori della Chiesa lamentano la mancanza?

Una risposta di grande chiarezza e autorevolezza la diede all’udienza generale del 24 ottobre 2012 papa Benedetto XVI, allorquando ricordò: «La fede è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio […] ma è anche atto profondamente libero e umano […] La fede allora è un assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro “sì” a Dio, confessando che Gesù è il Signore. E questo “sì” trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile».

Alla luce di queste considerazioni, e tornando al saggio ammonimento dell’arcivescovo di Los Angeles, non resta quindi che chiedersi: ma al di là delle umane difficoltà che ciò comporta, e dell’inevitabile ostilità del mondo che questo implica, oggi la Chiesa sa ancora manifestare e rinnovare il proprio «“sì” a Dio»? E’ dalla risposta a questa domanda, prima che da tanti pur appassionati summit, che passa il futuro del Chiesa cattolica, ossia dalla capacità di ritrovare la propria radice soprannaturale e di saperla onorare fino in fondo.

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