In questi giorni l’interesse di tutto il mondo è puntato sull’Afghanistan, dove la situazione è precipitata in pochissime settimane, dopo che l’America, e con essa i suoi alleati, hanno deciso di ritirare le truppe. Il risultato è che il Paese asiatico che era stato invaso nel 2001, a seguito dell’attentato terroristico alle Torri gemelle, è già di nuovo in mano ai talebani e la popolazione civile è in preda al terrore.
Per comprendere meglio la situazione, abbiamo contattato l’Ufficiale del genio guastatori Antonio Li Gobbi (foto a lato) che, tra gli altri Paesi, ha prestato servizio anche in Afghanistan, in veste di sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul.
Generale, sembra che, dopo vent’anni, il cerchio si sia chiuso all’insegna del “falling man”. Nel 2001, a volare nel vuoto erano americani che cercavano di fuggire al fuoco delle Torri gemelle, oggi sono persone che cercano di fuggire da un Afghanistan ricaduto in mano ai talebani… è l’immagine iconica di una sconfitta?
«Sicuramente è stata una sconfitta. Una sconfitta cocente e tristemente annunciata. Aggiungerei, annunciata da tempo e a più riprese, a cominciare da quando gli ultimi tre presidenti succedutisi alla Casa Bianca (Obama, Trump, Biden) hanno pubblicizzato date di “ritiro” del contingente Usa. Un “fine missione” che rispondeva esclusivamente a esigenze elettorali domestiche, senza alcuna connessione con la situazione sul terreno. L’aspetto più drammatico è però il futuro di chi aveva creduto che l’Occidente li avrebbe condotti verso un mondo dove non si dovesse aver paura di esprimere liberamente le proprie idee o il proprio credo religioso e non si dovesse temere la sharia. Coloro che in questi vent’anni si sono fidati e si sono esposti per essere dalla “nostra” parte, tutti costoro da quando vi sono stati gli accordi di Doha sapevano di essere in pericolo. D’altronde, i Talebani hanno sempre saputo che alla fine avrebbero vinto loro e ci hanno sempre detto con aria di superiorità: “Voi avrete gli orologi ma noi abbiamo il tempo”. Avevano ragione, loro lo sapevano, ma in tutta onestà possiamo dire che non lo sapessimo anche noi? Davvero non sapevamo che sarebbe andata a finire così?».
Come ne escono gli Usa e i suoi alleati?
«La credibilità degli Usa (e delle coalizioni a guida Usa, NATO compresa) nelle future aree di crisi dipenderà anche dalle immagini strazianti che ci arrivano in questi giorni da Kabul. Quando in futuro i soldati dei nostri Paesi interverranno in Paesi lontani per “portare democrazia e diritti civili”, dovranno fugare negli occhi dei locali cui si chiederà la collaborazione la paura di venire abbandonati, quando noi ci stancheremo, all’ineluttabile vendetta di un nemico crudele e vendicativo che, a differenza nostra, non si stancherà mai, perché lui (come i Talebani oggi) “ha il tempo!”».
«La nostra missione in Afghanistan non è mai stata pensata per costruire una nazione», ha affermato Joe Biden parlando agli Stati Uniti. L’errore di fondo sta proprio qui?
«Premetto che ho trovato terribilmente deludente e auto-assolutorio il discorso di Biden, che ha tentato di giustificare il fallimento sia militare sia politico degli Usa scaricando le responsabilità sul governo e sulle forze di sicurezza afghane. Peccato che sia stato proprio Washington a forgiare in questi 20 anni sia un “governo centrale”, evidentemente disconnesso dalla realtà e dalla cultura del Paese, sia quelle forze armate e di polizia strutturate su modelli occidentali che ora si accusano di non aver combattuto. Che il governo centrale di Kabul mancasse dell’autorevolezza per catalizzare la resistenza contro i talebani, mi pare fosse evidente. Le migliaia di diplomatici e di operatori dell’intelligence Usa nel paese ne erano sicuramente a conoscenza. Venendo alla frase in questione, se così fosse stato veramente non si capisce perché dopo aver scacciato i talebani, con il supporto non indifferente delle “armate del nord” nel 2002 e 2003, gli Usa siano rimasti nel Paese, perché abbiano tentato di forgiare il governo centrale facendo anche sì che si susseguissero presidenti (Karzai prima e Ghani poi) che erano culturalmente vicini all’America (e pertanto percepiti come “corpi estranei” dalla maggioranza degli afghani). Perché allora il tanto sbandierato impegno per i diritti civili e per i diritti delle donne? Perché lo stesso oneroso impegno di ricostruzione delle forze armate e di sicurezza? Qualcosa non torna!».
E cosa rispondere a chi afferma che le forze militari afghane non hanno combattuto?
«Sappiamo che gli Afghani sono un popolo di combattenti. Sono stati addestrati e seguiti da mentors Usa e NATO per anni. Però, per combattere serve motivazione e, di norma, una speranza sia pur remota di successo. Con gli accordi di Doha era evidente a tutti che gli Usa avevano “regalato” il paese ai talebani. Pertanto, è in fondo comprensibile che fosse carente la motivazione per “combattere e morire” per un governo in cui forse la maggioranza degli Afghani non credeva. Né, dopo gli accordi di Doha, ci potevano essere troppe speranze per un futuro senza i talebani al potere».
In Afghanistan però non c’erano solo gli americani, ma anche la Nato e altri alleati. Questo ingente impegno militare ha avuto senso?
«Si è trattato di un impegno militare veramente importante, con costi umani e finanziari tutt’altro che trascurabili. Il punto è che probabilmente non vi era chiarezza in merito agli obiettivi da raggiungere. Come dimostrano anche le recenti discutibili dichiarazioni sia del Presidente Biden sia del Segretario Generale della NATO Stoltenberg».
Quindi qual era la motivazione alla base di tutto?
«La motivazione iniziale della Casa Bianca per andare in Afghanistan era essenzialmente di politica interna. Dal canto loro gli Alleati degli Usa (NATO e non) si sono avventurati in un’impresa di cui ignoravano la complessità confidando spesso sulla potenza Usa più che sui propri mezzi. Soprattutto, però, sono andati in Afghanistan per motivi che poco o nulla avevano a che fare con l’Afghanistan stesso. Alla NATO occorreva da un lato dimostrare la vitalità di un link trans-atlantico, che di fatto dall’epoca della presidenza di Bush junior era più formale che sostanziale, dall’altro “farsi perdonare” il non aver seguito Washington nell’avventura irachena del 2003. Per i singoli Paesi membri (a parte la Turchia che ha sempre avuto propri interessi in Afghanistan) si trattava essenzialmente di acquisire meriti nei confronti di Washington, insomma acquisire “bonus” da giocarsi poi su altri tavoli. Questa mancanza di reale interesse strategico alla lunga non poteva non mostrare i propri limiti. Così anche gli “Alleati” hanno accettato senza discutere la decisione americana di trattare con i talebani e restituire a loro il controllo del Paese. In fondo, se Washington si ritirava, venivano meno sia gli obblighi di solidarietà nei confronti degli Usa sia le possibilità operative per gli altri paesi per continuare da soli la missione. Un alibi eccellente per coprire le nostre ipocrisie».
Un alibi sì, ma a scapito della credibilità…
«Sì, da questa vicenda la credibilità della NATO ne esce a pezzi e l’Alleanza dovrà seriamente riconsiderare i propri obiettivi e le proprie procedure decisionali. L’Ue dovrebbe forse ergersi in piedi anche sotto il profilo militare e assumere alcune delle funzioni che oggi sono della NATO».
Guardiamo al presente e al futuro: come si svilupperà la situazione afghana?
«Siamo onesti: l’Afghanistan “occidentale” è irrimediabilmente perduto! Ovvero, non ci sarà (almeno nel prossimo decennio) un Afghanistan che si ispiri a “valori” occidentali. I Talebani eseguiranno le loro crudeli “vendette”, non perché siano “barbarici”, ma perché tale modus operandi risulta tremendamente efficace per imporre il proprio controllo sul Paese quando si è numericamente minoritari. Non ci sarà pietà, né potrebbe esserci e gli appelli occidentali a non perpetrare “vendette” sanguinarie otterranno solo l’effetto opposto, dovendo i Talebani dimostrare che loro degli “infedeli” non hanno paura».
A livello internazionale, tuttavia, ONU, NATO e UE parlano di «isolare» il Paese, se si renderà necessario…
«Si tratta di minacce risibili. Sappiamo che, aldilà dei proclami retorici e vuoti, un tale “isolamento internazionale” non vi sarà, perché in geo-politica come in fisica i vuoti vengono sempre riempiti. I legami di Pakistan e Qatar con i Talebani sono noti, ma forse tutto l’Islam Politico non è troppo ostile nei loro confronti. La stessa Turchia di Erdogan, che manterrà una presenza nel Paese e che negli anni ha saputo costruirvi una rete di interessi di tutto rilievo, non dovrebbe avere soverchi problemi a scendere a patti con loro».
E la Cina?
«La Cina sarà ben felice di sostituire la presenza americana nel Paese (dal quale peraltro la separa un sia pur breve ed impervio confine terrestre). Già ci sono stati contatti formali a livello ministeriale tra Cina e Talebani e certo non ci si sarà limitati a parlare dei diritti religiosi degli Uiguri (siamo realistici: la Cina non avrebbe necessità di scendere a patti con i Talebani per gli Uighuri visto che non è scesa a patti con l’intero Occidente per Hong Kong)».
Anche perché l’Afghanistan è ricco di materie prime…
«L’Afghanistan, che era già in epoca antica sulla vecchia “Via della Seta”, è anche oggi sul tragitto della nuova Belt&Road Initiative terrestre! In Afghanistan ci sono importanti riserve di gas naturale, di cobalto, di litio, di oro che i Talebani da soli forse non sarebbero in grado di sfruttare, ma che possono servire come merce di scambio per ottenere protezione internazionale da chi, come Pechino, si fa pochi scrupoli in termini di diritti umani. Inoltre, il gasdotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), che trasporterà gas naturale dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan, il Pakistan e l’India è considerato il simbolo del riscatto energetico di tutta l’Asia Centrale e la sua realizzazione comporterà miliardi di dollari di royalities per chiunque controlli veramente il territorio afghano e per i suoi sponsor (ovvero, di nuovo, la Cina). Una maggior presenza cinese in Afghanistan consentirà alla Cina di giungere, attraverso il Pakistan con cui ha già ottimi rapporti, al Mar Arabico (elemento chiave della Belt&Road Initiative Marittima). Inoltre, così facendo Pechino isolerà l’India che oltre ad essere la sua principale avversaria nell’Asia Meridionale è anche l’elemento cardine del Quadrilateral Security Dialogue costruito dagli USA proprio in funzione anti-cinese».
Anche l’Iran “muoverà le proprie pedine”?
«Teheran, già sul “libro nero” degli Usa, non disdegnerebbe di mantenere relazioni aperte con i Talebani, anche perché le regioni più ricche dell’Afghanistan sono proprio quelle occidentali al confine con l’Iran e dove larghe percentuali di popolazione sono di religione sciita».
E la Russia?
«Riterrei probabile anche un ritorno di interesse della Russia nel Paese, che verosimilmente sarebbe ben felice di trattare con i Talebani per ottenere assicurazioni che non fomentino movimenti islamisti in Russia o nelle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale».
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