Le donne in Italia continuano a incontrare «notevoli difficoltà» nell’accesso ai servizi d’interruzione di gravidanza, nonostante quanto previsto dalla legge 194 sull’aborto. L’Italia viola quindi il loro diritto alla salute. Lo ha affermato il Consiglio d’Europa, pronunciandosi su un ricorso presentato dalla Cgil. «Le donne che cercano accesso ai servizi di aborto -si legge nelle conclusioni- continuano ad avere di fronte una sostanziale difficoltà nell’ottenere l’accesso a tali servizi nella pratica, nonostante quanto è previsto dalla legge ». Una sentenza «importante – commenta la segretaria della Cgil, Susanna Camusso – perché ribadisce l’obbligo della corretta applicazione della legge 194, che non può restare soltanto sulla carta. Il riconoscimento di queste violazioni secondo la Cgil è una «vittoria per le donne e per i medici, ma anche per l’Italia».
I non obiettori discriminati
Secondo il Consiglio d’Europa, l’Italia discrimina medici e personale medico che non hanno optato per l’obiezione di coscienza in materia di aborto. Questi sanitari, in base alle rilevazioni effettuate, sono vittime di «diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti».
Il ministro Lorenzin: «Dati vecchi, ora è diverso»
Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin si dice stupita dal pronunciamento del Consiglio d’Europa. «Mi riservo di approfondire con i miei uffici – dice – ma dalle prime cose che ho letto mi sembra si rifacciano a dati vecchi che risalgono al 2013. Il dato di oggi è diverso». Secondo il ministro «non c’è alcuna violazione del diritto alla salute» e non è stato tenuto conto del corso di formazione organizzato dal dall’Istituto superiore di sanità sul sistema di sorveglianza dell’Ivg e l’applicazione della legge 194, organizzato il 24 febbraio scorso. Ma immediata è arrivata la replica della Cgil: «I dati sono aggiornati all’ultima udienza davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo il 7 settembre 2015 e non sono mai stati smentiti dal ministero della Salute e dal governo italiano». Nonostante le sollecitazioni e la documentazione di tutti i casi di malfunzionamento, «il ministero della Salute – precisa la responsabile politiche di genere della Cgil, Loredana Taddei – non ha fornito la prova di aver superato le criticità che sono state quindi accertate dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa».
Le ragioni del ricorso
La Cgil aveva presentato il ricorso nel febbraio del 2013, sostenendo che l’articolo 9 della legge 194, che regola il diritto all’obiezione di coscienza del personale medico ma allo stesso tempo sancisce che gli ospedali e le regioni devono assicurare sempre il diritto di accesso ai trattamenti interruttivi della gravidanza, viola la Carta sociale europea perché non precisa quali misure specifiche devono essere prese per garantire una adeguata presenza di personale medico non obiettore in tutte le strutture ospedaliere pubbliche. Questo vuoto normativo, unito all’alto numero di medici obiettori di coscienza, secondo la Cgil, finisce per avere effetti negativi sia sulle donne che vogliono o devono ricorrere all’aborto, sia sul personale medico non obiettore di coscienza che si ritrova a dover sostenere tutto il carico di lavoro necessario a garantire sempre l’accesso all’interruzione di gravidanza. Nella documentazione presentata, la Cgil elencava anche una serie di dati relativi al numero di medici obiettori e non obiettori, rivelando che a livello nazionale gli obiettori variavano tra un minimo del 67% al nord e l’80,5% al sud, mentre le realtà locali erano ancora più in difficoltà, ricordava la Cgil. Percentuali che non sono cambiate negli ultimi anni, secondo quanto testimonia la deputata Pd Roberta De Agostini, che ha presentato diverse interrogazioni al governo sul tema: «In alcune regioni – spiega- le percentuali di obiezione tra i ginecologi sono superiori all’80 per cento: in Molise (93,3 per cento), in Basilicata (90,2 per cento), in Sicilia (87,6 per cento), in Puglia (86,1 per cento), in Campania (81,8 per cento), nel Lazio e in Abruzzo (80,7 per cento). Quattro ospedali pubblici su dieci, di fatto, non applicano la legge 194 e continuano ad aumentare gli aborti clandestini». E ci sono anche ospedali dove c’è l’obiezione di struttura, ovvero il 100% dei medici rifiuta di applicare la legge. Secondo De Agostini, «è del tutto evidente – come in Italia si stia violando il diritto alla salute delle donne e quanto sia urgente garantire il servizio di interruzione volontaria di gravidanza in ogni struttura e su tutto il territorio nazionale, nella piena applicazione della legge 194 del 1978». Con quali risultati? «Le estreme conseguenze di questa situazione sono il ritorno al cosiddetto aborto clandestino `mascherato´- incalza il Movimento Cinque Stelle – il maggiore rischio di complicazioni per le donne fino alle estreme conseguenze di drammatici decessi».
I rischi per la salute delle donne
Nelle motivazioni, il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa denuncia una situazione in cui «in alcuni casi, considerata l’urgenza delle procedure richieste, le donne che vogliono un aborto possono essere forzate ad andare in altre strutture (rispetto a quelle pubbliche, ndr), in Italia o all’estero, o a mettere fine alla loro gravidanza senza il sostegno o il controllo delle competenti autorità sanitarie, oppure possono essere dissuase dall’accedere ai servizi di aborto a cui hanno invece diritto in base alla legge 194/78». Secondo il Comitato, questo tipo di situazioni possono «comportare notevoli rischi per la salute e il benessere delle donne interessate, il che è contrario al diritto alla protezione della salute». Come dimostrano alcune esperienze drammatiche.
Cosa succede adesso
«L’Italia non può più rinviare un intervento legislativo sia per normare l’obiezione di coscienza per gli obiettori sulla 194 e sia per un albo pubblico dei medici obiettori- – evidenzia l’avvocatessa Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni, associazione che ha contribuito al ricorso con le sue osservazioni – Questa è infatti già la seconda decisione dell’Europa a favore di un ricorso sul tema: il primo lo avevano presentato le associazioni che fanno capo all’International Planned Parenthood Federation, e nel 2014 il comitato europeo dei diritti sociali che fa capo al Consiglio d’Europa si era pronunciato parlando di violazione nell’applicazione della legge 194. Questa volta si fa un passo in avanti, perché si profilano due elementi di danno: uno nei confronti delle donne, che sempre più sono costrette a ricorrere a strutture o procedure non autorizzate, rischiando non solo la salute ma anche multe salatissime, da 5 a 10 mila euro, e l’altro nei confronti dei medici, che quando non sono obiettori sono costretti a turni massacranti in cui effettuano solo interruzioni di gravidanza». Ma in che modo può intervenire concretamente il ministero della Salute? «Con l’AIED avevamo proposto che le Regioni monitorassero la situazione negli ospedali come previsto dalla l.194 e, laddove ci sono più medici obiettori, che ci fosse una deroga al blocco dei turnover nelle Regioni dove i servizi di IVG sono scoperti, concorsi pubblici riservati a medici non obiettori per la gestione dei servizi di IVG, e utilizzo dei medici “gettonati” per sopperire urgentemente alle carenze dei medici non obiettori», spiega Gallo. Conferma l’ex ministra alla Sanità Livia Turco: «Ci deve essere una vigilanza concreta e vanno attivate tutte le azioni pratiche possibili per una regolamentazione efficace dell’obiezione di coscienza, di cui indicazioni efficaci sono contenute nella relazione della commissione di bioetica della Presidenza del Consiglio presieduta da Casavola».
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