di Paola Liberace
Socializzazione, accoglienza, sicurezza. Sono queste le ragioni che di solito si citano a sostegno della scelta di affidare i figli all’asilo nido, quando per mamma e papà arriva il momento di rientrare al lavoro e, in assenza di nonni o tate, si pone il problema di chi provvederà al bambino. Più che “bambini”, tuttavia, sarebbe meglio chiamarli “neonati”: ciò che spesso si trascura, ponendo la questione dei servizi di assistenza alla prima infanzia, è appunto il fatto che si tratti di “prima” infanzia. Mentre ci si abbandona ad immaginare asili popolati da serene comunità di bimbi, felici di giocare insieme, per otto o nove ore al giorno, si dimentica il fatto che, almeno fino al terzo anno di vita, parlare di socializzazione risulta piuttosto azzardato.
La separazione precoce e prolungata dei neonati dai genitori, e in particolare dalla madre, è diventata ormai una necessità sociale, coperta da giustificazioni più o meno rassicuranti. Una scelta obbligata, più che meditata; il che non toglie che contrasti profondamente con le necessità fisiologiche e psicologiche dei bimbi. Se dalle nostre parti sono ancora poco diffusi, altrove abbondano gli studi che mostrano come la lontananza dei neonati dalla madre comporti ripercussioni negative tanto nel breve periodo (con la crescita della produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, man mano che aumenta la durata della separazione) quanto nel lungo periodo (con lo sviluppo di sentimenti di aggressività e comportamenti antisociali). Nel 2007, nella Germania erede della ex DDR – pioniera nella realizzazione di un sistema capillare di asili nido -, la Società Psicanalitica Tedesca (DPV) ha preso chiaramente posizione sul tema, denunciando il pericolo non trascurabile che l’affidamento precoce e prolungato ai nidi rappresenta per la salute psichica del bambino. Non che il pericolo decresca con la scelta di una baby sitter, specialmente se poco qualificata: nello stesso documento della DPV si sottolineano i rischi di conflittualità tra figure di riferimento – la madre e la tata – insiti in questa opzione, nonché il danno provocato dall’eventuale avvicendamento di persone diverse nel ruolo del caregiver.
Ma la separazione dai figli non è l’ideale neppure dal punto di vista delle madri: non sempre, infatti, il primo desiderio delle lavoratrici che hanno avuto figli da poco è quello di rientrare immediatamente al lavoro. Le indagini svolte nel corso di questo decennio dalle Consigliere di Parità locali, e confermate a livello nazionale dalle indagini ISTAT e ISFOL, mostrano come le donne, se messe in condizioni di farlo, preferiscano prendersi cura personalmente dei loro bambini, e come il fenomeno dell’abbandono lavorativo dopo il parto, più che alla mancanza di servizi di assistenza, si debba alla volontà di trascorrere più tempo con i figli. Peraltro, a dispetto della vulgata che propone il subitaneo rientro delle madri come principale antidoto all’uscita dal mercato del lavoro, le ricerche più recenti (come quella di Chiara Pronzato, del Centro Dondena dell’Università Bocconi) mostrano che una protezione della maternità protratta nel tempo aumenta la possibilità di ritorno al lavoro, mentre periodi più brevi forzano le madri a fare una scelta definitiva e precoce, con un più alto tasso di abbandono.
L’Europa insegna: non esiste una sola risposta “giusta” alla domanda di conciliazione. Non lo è certamente l’auspicio di un impossibile ritorno al passato, con le madri a casa a badare ai figli e i padri al lavoro; non lo è certamente l’affidamento esclusivo sul contributo dei nonni, incoraggiati magari dal fatto che il nostro welfare sia molto più generoso verso gli attuali pensionandi che verso i loro figli. Ma non lo è neppure l’investimento a senso unico in soluzioni che danno per scontata la delega dei neonati a strutture esterne alla famiglia, come gli asili nido. Proprio perché non esiste una sola risposta “giusta”, allora, è fondamentale lasciare alla famiglia la libertà di scegliere quella che le risulta più congeniale: sostenendo l’opzione di chi desidera occuparsi dei propri figli di persona almeno allo stesso modo delle altre.