Giovannino Guareschi era innamorato del Natale, poiché constatava la straordinaria fantasia di un Dio che si era fatto carne per redimere l’uomo, uomo che Lui stesso aveva creato. Non è una fede sociale e umanitaria a salvare il mondo, perché «non basta essere poveri per essere giusti – aveva spiegato una volta don Camillo a don Chichì –. E non è vero che i poveri abbiano solo diritti e i ricchi solo doveri: davanti a Dio tutti gli uomini hanno esclusivamente dei doveri» (333. Tutto don Camillo, p. 3047). Dio non può essere ridotto a una divinità cervellotica e astratta fatta di idee, ma è un Amore che si fa Verità affinché, seguendo quella verità, si possa vivere nell’amore e guardare con sguardo lieto il tempo che passa e che ancora deve arrivare.
«Per noi della vecchia generazione – afferma lo scrittore –, pure disincantati da guerre e relativi dopoguerra, nonché da altre esperienze, il traguardo sentimentale di ogni anno rimane il Natale. Natale è per noi la tappa annuale del lungo e duro cammino: l’albero frondoso all’ombra del quale, usciti dalla strada assolata e polverosa, ci fermiamo un istante per raccogliere le nostre idee, i nostri ricordi, e per guardarci indietro. E sono assieme a noi i nostri cari: i vivi e i morti. E nel nostro Presepino d’ogni Natale rinasce, col Bambinello, la speranza in un mondo migliore» (Chi sogna nuovi gerani?, p. 606).
In una serie concatenata di racconti di Mondo piccolo vengono mostrate le piccole meschinità imbiancate di perbenismo. Oggi ci commoviamo (giustamente) per le guerre che lacerano i popoli e per tutto quello che non va, ma non ci esaminiamo mai a fondo: siamo persone di pace e, quindi, di comunione o guerrafondai non su larga scala – ma nel piccolo del quotidiano –, capaci di portare divisione e maldicenza? Se il problema è l’ingiustizia dei sistemi politici che non funzionano, problema ancora maggiore è il cuore dell’uomo: se questo non funziona bene, se l’egoismo è il principio cardine dell’esistenza, il mondo non può che andare a rotoli. In fondo, il Natale ci ricorda proprio questo: la presenza di un Dio che si fa piccolo e umile può cambiare il tuo cuore, altrimenti la società sarà corrosa dalla diffidenza, la stessa che si era diffusa tra la gente di quel «paese strampalato dove il sole picchia martellate in testa alla gente e la gente ragiona più con la stanga che col cervello, ma dove, almeno, si rispettano i morti» (28, p. 200).
Tutto ebbe inizio a causa di un assassino in circolazione, tanto che lo stesso compagno Bottazzi nutriva dei dubbi addirittura verso i suoi uomini più fidati, come il Brusco. Si narra, infatti, di un tale freddato da uno degli uomini di Peppone. Il capo dei “rossi” si trovava da solo in casa del Pizzi per intimidirlo, quando questi fu ammazzato davanti ai suoi occhi e a quelli dei famigliari. Né il sindaco né la moglie del morto freddato avevano visto l’omicida in faccia, ma il figlio sì. Ed era andato a confessarlo a don Camillo. Che poteva fare quel carrarmato in abito talare se non scuotere l’opinione pubblica con un gesto di forza erculea? Non si doveva dichiararlo apertamente, certo, per non sbugiardare nessuno ma, sapendo che non era stato un suicidio quello del Pizzi – come invece tutti ritenevano –, l’inossidabile parroco aveva voluto svolgere i funerali in chiesa. Il risultato fu quello di tirarsi dietro le ire del paese intero. Alla fine, davanti alla chiusura dei cuori, non ci fu altro da fare se non scribacchiare su un giornale creato ad hoc riflessioni atte a risvegliare le coscienze, soprattutto quelle dei comunisti. Dopo l’uscita del suo articolo – si legge nel racconto La paura continua –, don Camillo si scoprì solo e, anche se si trovava in mezzo a cento persone, la sua sensazione pareva non mutare. Quella percezione palpabile di isolamento continuava a essere reale, perché la gente aveva paura di lui, come tentò di fargli comprendere il Cristo. Don Camillo non se ne capacitava, perché oltre alla paura le persone provavano anche odio.
«“Vivevano caldi e tranquilli – spiega ancora il Crocifisso al suo sacerdote – dentro il bozzolo della loro viltà. Sapevano la verità ma nessuno poteva obbligarli a sapere, perché nessuno aveva detto pubblicamente questa verità. Tu hai agito e parlato in modo tale che essi ora debbono saperla, la verità. E perciò ti odiano e hanno paura di te. Tu vedi i fratelli che, quali pecore, obbediscono agli ordini del tiranno e gridi: ‘Svegliatevi dal vostro letargo, guardate le genti libere […]’. Ed essi non ti saranno riconoscenti, ma ti odieranno e, se potranno, ti uccideranno perché tu li costringi ad accorgersi di quello che essi già sapevano ma, per amor di quieto vivere, fingevano di non sapere. Essi hanno occhi ma non vogliono vedere. Essi hanno orecchie ma non vogliono sentire. Sono vili ma non vogliono che nessuno dica loro che son vili. Tu hai resa pubblica una ingiustizia e hai messo la gente in questo grave dilemma: se taci, tu accetti il sopruso, se non lo accetti devi parlare. Era tanto più comodo poterlo ignorare, il sopruso. Ti stupisce tutto questo?” […]
“No” disse. “Mi stupirei se non sapessi che, per aver voluto dire la verità agli uomini, Voi siete stato messo in croce. Me ne dolgo semplicemente”» (45, p. 330).
L’assassino tentò di uccidere anche il parroco, mentre l’ignaro sacerdote si dilettava nel restauro del suo amato Crocifisso dell’altar maggiore, ma il suo colpo non andò a segno per via di un vero e proprio miracolo. Inoltre, dopo quel primo sparo, “qualcun altro” aveva mandato addosso al potenziale omicida una sventagliata di mitra, pur lasciandolo illeso.
«“Gesù” disse. “Io ho sentito la Vostra mano sulla mia fronte.”
“Tu vaneggi, don Camillo.”
Don Camillo riabbassò gli occhi e li fissò sulla mano attraversata dal chiodo. Poi si sentì come un brivido e lasciò sfuggirsi dalle dita il barattolo e il pennellino. Il polso del Cristo era stato trapassato dalla palla.
“Gesù” disse ansimando “Voi mi avete respinta la testa e avete ricevuta nel braccio la palla che era diretta a me!”» (45, p. 335).
Peppone stesso – si legge in Giallo e rosa – percepì lo sgomento generale, si sentì come imprigionato e non resse più a una sensazione tanto cupa e opprimente. Si recò, pertanto, in canonica da don Camillo, il quale, con il Natale alle porte, stava ritoccando le statue del presepe. Il sindaco si spazientì, perché l’arciprete proseguiva incurante nelle sue faccende. Notando il fastidio, don Camillo chiese di essere aiutato per finire prima, ma il capo dei “rossi” gli rispose indignato: «“Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi! […] Non mi avrete mica preso per il sagrestano!”» (46, vol. I, p. 342). Malgrado ciò, il prete di campagna non si scoraggiò e pescò dal fondo della cassetta un affarino rosa, grosso quanto un passerotto, e lo passò al compagno Bottazzi: si trattava del Bambinello che Peppone si trovò in mano, e – senza sapere come – iniziò a lavorare di fino, lui di qua e don Camillo di là dalla tavola, senza potersi vedere in faccia perché c’era, fra loro, il barbaglio della lucerna. Il sindaco comunista era amareggiato, non si fidava più di nessuno, ma forse a un prete reazionario si poteva dare ancora credito.
«Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile. Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra.
“Vorrei piantare lì tutto” disse Peppone. “Ma non si può.”
“Chi te lo impedisce?”
“Impedirmelo? Io piglio una stanga di ferro e faccio fuori un reggimento.”
“Hai paura?”
“Mai avuto paura al mondo!”
“Io sì, Peppone. Qualche volta ho paura.”
Peppone intinse il pennello.
“Be’, qualche volta anch’io” disse Peppone. […]
“La pallottola mi è passata a quattro dita dalla fronte […]. È stato un miracolo.”
Ora Peppone aveva finito il viso del Bambinello e stava ripassando il rosa del corpo.
“Mi dispiace di averlo sbagliato” borbottò Peppone. “Ma ero troppo lontano e c’erano di mezzo i ciliegi” […].
“Sia ringraziato Dio” sospirò don Camillo. “So come spari e allora posso dire che sono stati due i miracoli”» (46, pp. 343-344).
Don Camillo era a conoscenza di chi fosse l’uccisore del Pizzi, ma nessuna cosa al mondo avrebbe potuto mai fargli violare il segreto della confessione. Peppone, però, continuava a provare la sensazione di sentirsi come in galera.
«“C’è sempre una porta per scappare da ogni galera di questa terra” rispose don Camillo. “Le galere sono soltanto per il corpo. E il corpo conta poco.”
Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera. Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna.
“Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale” annunciò con fierezza Peppone. “Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno.”
“Lo so” ammise don Camillo […]. Poi, vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello.
“Questo è il figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo è Peppone” disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
“E questo è don Camillo!” esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
“Bah! Fra bestie ci si comprende sempre” concluse don Camillo» (46, pp. 344-345).
Il sindaco, una volta uscito dalla canonica, «si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa» (46, p. 345). Udì, poi, come a risuonarsi all’orecchio le parole della poesia studiata da suo figlio, che oramai anche lui sapeva a memoria.
«“Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!” si rallegrò. “Anche quando comanderà la democrazia proletaria le poesie bisognerà lasciarle stare. Anzi, renderle obbligatorie!”
Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anche lui una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto. E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo super atomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino» (46, pp. 345-346).
Le cose che contano, la realtà per quello che è per davvero: questi sono gli insegnamenti di don Camillo e di Peppone in questi racconti a volte commoventi, a volte divertenti, ma capaci, tutti, di far riflettere, se letti con un cuore semplice. Auguri, allora, davvero per vivere di quella pace che solo il Natale può donare!
(Fonte Foto Pixabay)
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