Qualche anno fa Leandro Aletti aveva dato alle stampe “Carne, ossa, muscoli e tendini”, edito da Gribaudi. Attuale più che mai, questo suo scritto è un’eredità, un testamento, una chiamata per tutti. Pubblichiamo la prefazione di Raffaella Frullone
“Carne, ossa, muscoli e tendini” è un documento prezioso.
A chi è nato dopo gli anni Settanta, come me, permette non solo di seguire per la prima volta la cronaca di un periodo caldissimo, che ha portato all’approvazione di una legge che ha legalizzato la soppressione di sei milioni di bambini nel nostro Paese, ma anche di conoscere vicende umane che si sono incrociate in quel “campo di battaglia” che è stata la clinica Mangiagalli di Milano: storie di madri ingannate, di cosiddetti aborti terapeutici su bimbi sanissimi, di genitori terrorizzati da campagne mediatiche costruite ad arte, di medici che hanno tradito la loro professione, di uomini che hanno lottato, giocandosi tutto, e di pavidi che sapevano cosa era giusto e cosa sbagliato, ma si sono trincerati dietro al “rispetto della libertà altrui”.
Per chi quegli anni li ricorda, perché li ha vissuti in prima persona, questo libro può aiutare a capire come certe dinamiche tendano a ripetersi. Oggi come ieri la vita diventa un bene “disponibile”, oggi come ieri si usa un caso pietoso per fare un forellino nella diga, che poi verrà ovviamente giù tutta. Difficile non pensare alla discussione che, mentre scriviamo queste righe, è in corso in Parlamento sulla legge per le cosiddette Disposizioni Anticipate di Trattamento, introduzione dell’eutanasia nel nostro Paese. Sorprendente ascoltare da pulpiti cattolici che “una legge bisogna comunque farla”, affermazione che nasce da un filone di pensiero sempre verde, quello della scelta sempre e comunque del “male minore”. Come se la storia non ci avesse insegnato nulla a riguardo.
A tutti questo libro offre una provocazione e una riflessione.
La provocazione è dolorosa. Scorrendo le pagine di Aletti si capisce che la partita sulla vita in quegli anni è stata giocata su diversi fronti: negli ospedali, sui giornali, nei Tribunali, nei partiti e nelle parrocchie – con la Chiesa attiva nel dibattito. La materia era così delicata e profondamente sentita che tantissimi allora si sono mobilitati, su un fronte o sull’altro. Oggi invece? Nella primavera dell’anno 2017, per tornare al caso prima citato, la discussione della legge sulle Dat sta passando nel silenzio generale. Perché nessuno manifesta nelle piazze? Perché nessuno protesta? Perché nessuno diffonde volantini, attacca manifesti sui muri? Perché in Parlamento non si è scatenata la bagarre? Come siamo arrivati al punto in cui l’approdo eutanasico del nostro Paese è considerato normale?
La riflessione sorge di conseguenza. O quasi. La vita di Leandro Aletti e il suo percorso professionale mostrano che l’obiezione di coscienza non ha tanto a che fare con la possibilità che la legge dà o non dà di sottrarsi a un determinato compito, ma è in prima istanza un moto del cuore, un sussulto di fronte a un male inaccettabile e che porta a una reazione. Aletti infatti ¬– e con lui il collega Luigi Frigerio e tanti amici di Comunione e Liberazione ¬– non ha reagito perché la legge 194 prevedeva l’obiezione di coscienza, bensì si è mosso ogni qualvolta la sua coscienza gli diceva che non poteva cooperare con il male. Non si è limitato quindi a non praticare aborti, secondo quanto permesso dalla legge, ma è intervenuto in prima persona ogni qualvolta la vita di un bambino era in pericolo, ogni volta che la realtà gli poneva di fronte un’occasione per ribadire che nessuna vita è a nostra disposizione. Un esempio che può e deve valere per molti altri ambiti. Pensiamo a quanti, oggi, nelle giunte e nelle amministrazioni comunali, affermano di non potersi sottrarre al celebrare le cosiddette unioni civili tra persone dello stesso sesso “perché la legge non prevede l’obiezione di coscienza”. Ma la coscienza viene prima della legge, prima dei doveri “da pubblico ufficiale” e ci dice che una cosa può essere sbagliata e inaccettabile anche se è legge.
Proprio in questa direzione vanno le due proposte con cui Aletti chiude questo libro, ovvero l’abrogazione delle leggi sull’aborto e sul divorzio. Sul divorzio in particolare scrive: «Ogni divorzio è un male per la coppia, i figli e la società». In quanti oggi hanno il coraggio di affermarlo pubblicamente? Se sull’aborto la società ha la percezione che esiste comunque una resistenza, per quanto flebile, lo stesso non si può dire per il divorzio, che viene accettato anche da gran parte dei cattolici con la scusa che “tanto ormai la legge c’è, non si può far nulla”. Invece si può far molto, per esempio dire che il divorzio “è un male per la coppia, per i figli, per la società”: un’affermazione politicamente scorretta che mette in luce un dato di realtà innegabile, ovvero che quella sul divorzio è stata la prima di una serie di leggi mortifere nei confronti della famiglia, serie che arriva fino alle leggi odierne improntate all’ideologia del gender.
In ultimo, ma non come importanza, Aletti non ha il complesso di inferiorità del cattolico medio, per cui “è meglio non utilizzare mai argomenti confessionali” nel dibattito, perché “i lontani non capirebbero”. Non ha paura di nominare Dio, Gesù, la Vergine Maria, con la stessa spontaneità con cui parla di ragione, scienza e medicina. A dimostrazione che la fede non solo illumina quella ragione che, da sola, si ribella alla soppressione della vita nascente, ma si fa presenza in tutto, in ogni episodio, in ogni momento, si fa carne, ossa, muscoli e tendini.