Tecnicamente Chiara Locatelli è Pediatra neonatologa all’Ospedale S.Orsola di Bologna, nonché responsabile dell’ambulatorio di malattie rare della neonatologia. Ogni giorno si dedica a piccoli pazienti con condizioni complesse, in particolare con la Sindrome di Down, dopo aver vissuto per un periodo a New York in cui si è formata nell’ambito delle cure palliative perinatali. Nel concreto, è soprattutto un medico che lascia il segno nelle vite dei pazienti che cura e delle loro famiglie: «Ha salvato mia figlia – mi ha detto ieri un’amica quando ha saputo che l’avrei intervistata – posso stare qui mentre la intervisti?», mi chiede tra i padiglioni del Meeting di Rimini. Ma non si può, perché Chiara Locatelli la intervistiamo al telefono, dopo una giornata di lavoro, mentre è in viaggio per Rimini dove in serata si tiene un incontro dal titolo “Quando pace e unità sono possibili: la testimonianza del beato José Gregorio Hernandez“, il medico e religioso di Caracas morto nel 1919 cui è dedicata una delle mostre più gettonate del Meeting dal titolo “Medico del popolo. Vita e opera di José Gregorio Hernández”.
Come ha conosciuto la vita di questo che qualcuno ha ribattezzato il San Moscati venezuelano?
«L’ho conosciuto grazie ad un amico che vive in Venezuela e che ho incontrato proprio al Meeting di Rimini qualche anno fa, è nata un amicizia e in quell’occasione mi aveva raccontato che loro, in Venezuela, partendo proprio dalla provocazione del Papa quando si era rivolto a tutto il Movimento di Cl, avevano approfondito una figura che nella loro terra era segno di una fede viva e mi aveva raccontato di questo medico, sapendo ovviamente che anche io lo sono… »
Che cosa l’ha colpita?
«Lo considero una figura di riferimento per la dedizione di quest’uomo verso i suoi pazienti. Mi rendo conto che per chi non fa il mio lavoro, per chi non lavora in ambito sanitario, questa potrebbe sembrare una cosa semplice, quasi scontata, invece solo la passione alla realtà che viene da uno sguardo di fede permette di mettere in campo, nel nostro curare, nel nostro fare ricerca, una dedizione che non è ordinaria, a me ha sempre colpito questa cosa. Anche perché quello di José Gregorio Hernandez è uno sguardo che chiede qualcosa a noi. Noi certo viviamo in un altro tempo rispetto a lui, forse abbiamo meno il problema della povertà vera, quella che non permette le cure per ogni bambi, però forse ci è chiesto di vivere come dice il titolo del Meeting di quest’anno un’amicizia particolare, una comunione che comprenda il suo sguardo sugli ammalati ».
Nel libro che accompagna la mostra si legge: «La sua fama di santità, come si legge e come viene detto alla mostra, la sua fama di santità si diffuse per le sue abitudine, preghiera digiuni» insomma non proprio dei tratti popolari al giorno d’oggi, sia per il mondo ma a volte anche per noi cattolici. Una postura che racconta di una comunione profonda col mistero, è ancora praticabile oggi, secondo lei?
«Io penso di sì e penso anche che questo permetta di recuperare l’origine di questa professione. Vediamo attorno a noi tanta solitudine e fatica, e il suo pregare ci mostra che solo andando all’origine di tutto è possibile recuperare anche quella che è l’origine del prendersi cura»
José Gregorio Hernandez è beato, perché diventi santo ci vuole un miracolo. Lei da medico, crede nei miracoli?
«Certo, ci credo e li chiedo»
(Fonte foto screeshot Youtube)
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