Sono passati quindici anni dal 19 aprile 2005, quando il cardinale Joseph Ratzinger si affacciò come Papa su di una piazza San Pietro gremita. Dopo due giorni di conclave e quattro votazioni (dalle ricostruzioni giornalistiche pare che il suo “avversario” diretto fu proprio il cardinale Jorge Mario Bergoglio), Joseph Ratzinger, decano del Collegio cardinalizio, era stato eletto Sommo Pontefice, 264° successore dell’apostolo Pietro, scegliendo il nome di Benedetto XVI.
Il 16 aprile scorso Joseph Ratzinger, oggi nella inusuale veste di “papa emerito”, ha compiuto 93 anni e accompagna la Chiesa dal suo ritiro nel monastero Mater ecclesiae dentro le mura vaticane, in preghiera. Anche se in diverse occasioni ha fatto sentire ancora la sua voce, scatenando spesso reazioni scomposte. Giovane perito al Concilio Vaticano II, indicato dall’arcivescovo di Colonia, cardinale Frings, Joseph Ratzinger ha poi attraversato la storia della Chiesa ricoprendo per oltre 25 anni il ruolo di prefetto dell’ex Sant’Ufficio sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. E poi appunto come Papa dal 2005 fino alla storica rinuncia del 2013. Imponente e misteriosa è anche la sua figura di “papa emerito”, fragile e solida al tempo stesso.
È difficile poter scrivere qualcosa di Benedetto XVI in poche righe, forse impossibile tentare di coglierne il suo tratto più caratteristico. C’è però un breve passo dell’ultimo libro di Giulio Meotti, uscito in questi giorni con il titolo L’ultimo Papa d’Occidente? (Liberilibri, pagg. 132, € 14,00), che forse può risolvere tutto.
Era il 1990 e il comunismo sembrava davvero sconfitto in Europa. «Eccola, “la fine della storia”, dove non esistevano più avversari visibili, credibili, all’unica idea trionfante del XX secolo che era la democrazia liberale», scrive Meotti. «Sono gli “ultimi uomini” di cui aveva parlato Friedrich Nietzsche, parcheggiati nel binario morto della storia, siamo noi, che avevamo vinto la guerra ideologica ma che non sapevamo cosa fare di tale vittoria. Ci comportavamo come orfani di un grande nemico. Il male era chiaramente percepibile, e di riflesso anche il bene. Ratzinger invece stava già mettendo in guardia l’Europa da un imminente rischio di “suicidio”».
«Vedeva più lontano di tutti gli altri. Vedeva un Occidente adagiato su immaginari trofei, stordito dall’ebbrezza del trionfo, inebetito dal senso di onnipotenza, che aveva cominciato a impigrirsi, a farsi avvolgere dalle ragnatele del tedio di vivere. Ratzinger aveva capito che in Occidente si era imposto un nuovo potere deideologizzato ma non meno granitico di prima, che non cerca più di influenzare il pensiero ma di toglierlo, imponendo un conformismo puramente esterno. (…) Ratzinger ha visto annidato il germe della dissoluzione. In questo caos, la Chiesa avrebbe costituito “la memoria dell’essere uomini di fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio di misure”».
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