Alla fine il cosiddetto bando delle persone “transessuali” dalle forze armate a stelle e strisce sta per divenire realtà, nel senso che presto entrerà in vigore. Un bando che a dire il vero prevede delle eccezioni ed è solo un primo passo nel verso giusto, quello di tener fuori – quantomeno dal servizio militare – un’ideologia che devasta (innanzitutto chi ne è portatore nonché i minori massicciamente esposti alla propaganda) nel corpo e nello spirito. Donald Trump l’aveva annunciato informalmente nel luglio 2017, poi erano seguiti i dovuti passi formali con la collaborazione dei ministri competenti (l’allora responsabile della Difesa, James Mattis, e il segretario per la Sicurezza interna, Kirstjen Nielsen), fino al memorandum presidenziale del 23 marzo 2018.
In quel memorandum Trump scriveva tra l’altro: «Le politiche stabilite dal Segretario della Difesa affermano che le persone transgender con una storia o una diagnosi di disforia di genere – persone che le politiche affermano possano richiedere un sostanziale trattamento medico, inclusi farmaci e trattamenti chirurgici – sono escluse dal servizio militare eccetto che sotto circostanze limitate». Questo memorandum si era reso necessario a seguito del colpo di coda dell’amministrazione Obama, che nel 2016 aveva annunciato – attraverso il segretario della Difesa, Ashton Carter – la fine immediata del divieto di ingresso nelle forze armate per chi si ritiene trans e previsto un anno di sperimentazione prima della definitiva entrata in vigore della riforma in salsa arcobaleno. Che poi è stata fermata, appunto, da Trump.
Eppure, non è stato semplice perché le organizzazioni Lgbt hanno messo in campo tutti i loro mezzi e promosso cause legali, inducendo quattro diversi tribunali a emettere ingiunzioni provvisorie contro l’applicazione del divieto repubblicano. L’ultima di queste quattro ingiunzioni, su due delle quali è dovuta intervenire addirittura la Corte suprema, è stata revocata il 7 marzo dal giudice distrettuale George Russell III. Il 12 marzo, ormai libero da ostacoli giudiziari, il Pentagono ha quindi potuto presentare le nuove linee guida – firmate dal vicesegretario della Difesa, David Norquist – e che, secondo quanto riporta l’Abc, entreranno in vigore il 12 aprile.
La nuova politica dell’amministrazione Trump prevede che le forze armate non accetteranno più tra le reclute persone che abbiano una diagnosi di “disforia di genere” (anch’essa un’invenzione del transessualismo, che si associa a problemi e tassi di suicidio di parecchie volte superiori alla media) o che si siano già sottoposte a trattamenti chirurgici od ormonali. Coloro già in servizio potranno rimanere, ma aderendo agli standard di vestiario e formazione previsti per il sesso biologico d’appartenenza. «Eventuali deroghe saranno stabilite caso per caso – riferisce l’Abc – ma solo dai segretari responsabili dei servizi militari». Riguardo ai militari che hanno già una diagnosi di “disforia di genere” e, con una “procedura di transizione” già in corso, sarà loro consentito proseguire quest’ultima. Come accennato, è una politica figlia di un compromesso e che sconta pure l’eredità obamiana, con punti che rimangono cattivi, come l’appena vista perseveranza nel processo di distruzione di un corpo sano, e altri positivi, di ritorno al buonsenso.
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