«Come non meravigliarsi dinanzi ai toni accorati della lettera inviata nel 1453 da Enea Silvio Piccolomini a papa Niccolò V? Il futuro Pio II, appena informato della caduta dell’impero bizantino nelle mani spurcissimorum Turchorum, scrive al Papa: “E che dire dei libri, che laggiù erano innumerevoli, non ancora noti ai Latini? Ahimè, adesso chissà quanti nomi di insigni uomini periranno? Questa è una seconda morte per Omero, un secondo trapasso per Platone”». È Francesco Colafemmina, filologo e scrittore, a riportare questo accorato e attualissimo “grido” papale. Lo fa nel suo ultimo saggio, (Passaggio al Bosco, 2024), libro denso di fascino in cui l’autore non solo squaderna la forza vitale dei classici greci e latini ma li descrive come un vero e proprio “antidoto” per l’oggi, «malgrado siano dati in pasto ai deliri della cancel culture». Se infatti Erasmo da Rotterdam non sentiva alcuna necessità di figurarsi il mediterraneo Odisseo con le fattezze di un olandese, gioendo piuttosto per la potente “discendenza spirituale”, oggi, in un misto di infantilità e dissacrazione, si è obbligati a rappresentare il biondo Achille col volto color pece di un congolese, pena l’accusa di razzismo. In questa stimolante intervista Francesco Colafemmina smonta miti e fake news, ma soprattutto arriva al cuore della bellezza classica, all’ideale che arde nell’anima degli antichi.
Il saggio si apre con la più nota definizione del termine Classicus, quella formulata da Aulo Gellio nelle sue Noctes Atticae. Lei scrive che per lo scrittore e giurista romano del II secolo «venivano chiamati Classici non tutti coloro che erano ricompresi nelle cinque classi, ma soltanto gli uomini della prima classe, che avevano un censo pari o superiore ai 120.000 assi». Si tratta davvero solo di una questione economica?
«No, la questione è più interessante. Rientravano nella prima classe i cittadini che avevano un censo sufficiente a dotarsi di un’armatura completa. Nelle semplificazioni moderne si tratta degli “aristocratici”. In realtà,…
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