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21.12.2024

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Utilitarismo vs amore
31 Gennaio 2014

Utilitarismo vs amore

 


 

È il momento di recuperare uno sguardo non pragmatico nei riguardi delle persone. E in parte anche nei riguardi della natura. Altrimenti l’amore è impossibile

 

 

Su il Timone del mese scorso abbiamo visto che le azioni moralmente più nobili sono quelle compiute per amore, sono quelle motivate dalla ricerca senza tornaconto del bene degli altri, da una ricerca non autointeressata, bensì disinteressata o, se vogliamo, interessata al bene altrui ma non al proprio (che peraltro è legittimo ricercare in una certa misura), o che, perlomeno, non è diretta principalmente al bene proprio. Solo che la cultura contemporanea, diversamente da quella antica, ostacola fortemente questo modo di vivere.
Infatti, «L’educazione antica […] mirava anzitutto al come delle cose piuttosto che al che, educava non tanto al conseguimento di risultati quanto ad uno stile di vita»: additava come scopo della vita l’eccellenza intrinseca dell’agire umano. Così, «l’immagine della vita come un immenso […] teatro era l’espressione metaforica di questo modello educativo» (E. Samek Lodovici, Occorre uno scopo al nostro sapere, cfr. bibliografia). Non nel senso che la vita sia una finzione teatrale, in cui non si deve essere autentici, in cui si deve simulare e dissimulare. Piuttosto, la metafora allude al fatto che sulla scena di un teatro, a volte, la comparsa, che sta in scena un minuto e ricopre un ruolo insignificante, è migliore del protagonista, che pur sta tre ore sul palcoscenico ed ha il ruolo determinante: è migliore se e quando recita meglio del protagonista. Similmente, anche nella vita, non conta soltanto, né anzitutto, il ruolo che svolgiamo, il nostro titolo, gli stati del mondo che produciamo, non conta principalmente la cosa che facciamo, bensì come la facciamo, la sua qualità intrinseca. Contano anche i risultati, i ruoli (quindi è giusto avere delle sane ambizioni), gli stati del mondo, la conformità ad un dovere, ecc., ma non in modo principale.
In questo senso, a volte può capitarci di avere dei grandi ideali e di rammaricarci di non poter incidere sul mondo a causa del nostro status sociale, a volte ci capita di pensare: «se fossi il Presidente degli Stati Uniti, il Segretario dell’Onu, il Presidente della Banca Mondiale, ecc. potrei fare questo e quello, invece sono solo…». Ebbene, il discorso che stiamo svolgendo è molto consolante al riguardo: è vero che i potenti della terra possono influire sul corso della storia molto più di un uomo ignoto che svolge mansioni umili; eppure quest’uomo può essere più grande di loro perché fa meglio di loro le cose che fa.
Così, già per Socrate il vero eroe non è il guerriero, bensì colui che governa se stesso e, come dice Kierkegaard, «Affinché uno sia chiamato eroe non si deve tenere conto di ciò che fa, quanto di come lo fa. Uno può conquistare regni e paesi senza essere un eroe, un altro dominando il suo animo può mostrarsi eroe. Uno può mostrare coraggio facendo lo straordinario, un altro facendo l’ordinario. Il problema resta costantemente come lo fanno».
Ora, il discorso che avevamo incominciato su il Timone del mese scorso insiste proprio sull’importanza del «come» vengano compiute le azioni, sul modo di compierle. «Come» significa con quale impegno, con quale dedizione, ecc. Soprattutto, nel nostro discorso, il come, il modo di compiere le azioni che le rende perfettamente virtuose equivale a: «per amore», non per dovere, per massimizzare gli stati del mondo o per altri motivi.
Quest’immagine della vita umana come teatro è stata il modello educativo che dai greci (per esempio Plotino) si è ritrasmessa all’Occidente cristiano (cfr., per esempio, Calderon de la Barca).
Ma poi è entrata in crisi: la mentalità moderna, infatti, ostacola questo modo di vivere.
Infatti, soprattutto a partire dalla Rivoluzione scientifica (che pur ha avuto i suoi indiscutibili meriti) lo sguardo contemplativo e teoretico della maggior parte dei classici è stato, spesso, sostituito da uno sguardo calcolatore e dominatore. Per Bacone sapere è potere: «La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa preclude l’effetto, e alla natura si comanda solo ubbidendole»; per Hobbes «Il fine della scienza è la potenza; il fine del teorema […] sono i problemi, cioè l’arte del costruire: ogni speculazione, insomma, è stata istituita per un’azione o per un lavoro concreto»; e per Marx «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo». Insomma, da Bacone a Hobbes, a Marx, per molti autori lo scopo della conoscenza diventa eminentemente, se non esclusivamente, pragmatico. Come ha messo in luce (tra gli altri) Robert Spaemann, il sapere antico si concentrava sui fini e sulla natura dei fenomeni e dei viventi, aveva appunto uno sguardo contemplativo; invece la scienza moderna si è focalizzata sulle loro cause efficienti e sulla loro utilizzabilità, soprattutto perché la conoscenza delle cause efficienti dei fenomeni consente di prevederli, controllarli, riprodurli ed appunto utilizzarli. E, correlativamente, in Cartesio ed in diversi autori dell’Illuminismo la natura è divenuta una cava di esperimenti, un essere totalmente a disposizione.
Indiscutibilmente questo sguardo pragmatico ha consentito di conseguire risultati straordinari e scoperte fondamentali (pur se molte scoperte significative avvenivano anche prima della Rivoluzione scientifica, cfr. per esempio Rodney Stark, La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, Lindau, 2006). Il problema è che questa finalizzazione pragmatica è stata spesso richiesta a tutto il sapere e a tutto l’agire, ed è diventata l’anima di una delle più influenti filosofie morali, cioè l’utilitarismo. Questo sguardo calcolatore e manipolatore è pertanto all’origine di quella «nevrosi da successo obbligatorio che tiene il campo ai nostri giorni dove solo i risultati [il cosa, gli stati del mondo] sono decisivi» (E. Samek Lodovici, Occorre uno scopo al nostro sapere). Per questo è fondamentale recuperare uno sguardo non utilitaristico, perlomeno nei riguardi delle persone, ma forse anche nei riguardi della natura. Altrimenti l’amore è impossibile. Ora, tale modo di vedere le cose è molto simile all’atteggiamento estetico, dato che la risposta primaria che il soggetto esprime davanti al bello è appunto l’ammirazione disinteressata, l’apprezzamento e, come ha detto il teologo von Balthasar, chi disdegna l’arte «non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare».

RICORDA

 

«Infatti, se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?
Non fanno così anche i pagani? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
(Vangelo di Matteo 5,46-48).

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Emanuele Samek Lodovici, Occorre uno scopo al nostro sapere, in Prospettive nel mondo, 53 (1980), ripubblicato col titolo Il gusto del sapere, reperibile anche su www.disf.org/Documentazione/34.asp
Robert Spaemann, Ars longa, vita brevis, in Acta Philosophica, 13 (2004), 2, pp. 249-264;
l’articolo è reperibile anche su www.actaphilosophica.it/pdf/Acta 2004 2.pdf
Giacomo Samek Lodovici, L’utilità del bene.
Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Vita e Pensiero, 2002.

 

 


 

IL TIMONE N. 91 – ANNO X II – Marzo 2010 – pag. 30 – 31

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