L’ideologia di genere “deve” diventare legge negli Stati occidentali. Così vogliono i potenti che stanno a Bruxelles, i trattati e gli accordi internazionali, la grande stampa europea e molti uomini politici. Le modalità attraverso cui si sta realizzando il progetto.
Una strategia internazionale
I diritti umani appunto. È sotto questa voce che in Europa si cerca di far passare questa rivoluzione antropologica che sposta l’attribuzione del sesso dalla natura (maschio, femmina) alla cultura (maschio, femmina, omosessuale, lesbica, transessuale e altro ancora). Non più “sesso” dunque ma “orientamento sessuale”. Così l’articolo 13 del Trattato di Amsterdam (1997) dà alla Comunità Europea il potere di combattere la «discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale». E allo stesso modo si esprime la Carta Fondamentale dei Diritti Umani proclamata dalla UE nel 2000.
Non bastasse, nel 2007 il Parlamento Europeo ha richiesto alla neonata Agenzia per i Diritti Fondamentali (FRA, secondo l’acronimo inglese) di preparare un rapporto comprensivo che facesse il punto sull’omofobia e la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nei Paesi membri della UE, e suggerisse al contempo i rimedi legislativi e politici. Il rapporto è poi effettivamente uscito, in due parti: la prima nel giugno 2008 ed è un’analisi giuridica, la seconda nel marzo 2009 ed è invece un’analisi sociale.
Torneremo su questo doppio rapporto, ma ora è importante chiarire un aspetto di metodo. Perché infatti fermarsi sulle istituzioni sovranazionali e non esaminare lo stato della situazione nei singoli Paesi? La risposta è che è proprio la strategia di chi promuove l’ideologia dell’identità di genere a puntare su queste istituzioni, perché nell’attuale sistema di relazioni internazionali è il modo più diretto ed efficace per ottenere i risultati voluti. Il caso della Serbia citato all’inizio è emblematico, ma è una questione che riguarda tutti i Paesi.
Una convenzione dell’ONU, una direttiva dell’Unione Europea o una sentenza di una Corte di giustizia sovranazionale (sia essa europea o internazionale) costringono necessariamente i singoli Paesi ad adeguarsi, grazie anche al lavoro di controllo o di attivismo che poi svolgono le commissioni create apposta e le organizzazioni non governative nei singoli Paesi.
La mozione francese all’ONU
Per capire il meccanismo basta guardare al recente esempio della Francia. Il governo di Parigi, infatti, ha presentato all’ultima sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU (dicembre 2008) una mozione su “orientamento sessuale e identità di genere”, firmata poi da 66 Paesi, che intende fissare questi princìpi a livello internazionale. I contenuti di tale mozione vanno ben oltre la lotta alla discriminazione e anche ben oltre la legislazione vigente in Francia. Perché allora fare una battaglia all’ONU e non nel proprio Paese? Perché se certi princìpi passano a livello internazionale diventa molto più semplice tradurli in legge nel proprio Paese evitando i rischi di un dibattito nazionale, anche dagli effetti laceranti, che inevitabilmente una proposta di legge comporterebbe. In altre parole: un conto è che, ad esempio, una legge sui matrimoni omosessuali venga proposta da un gruppo di deputati nel Parlamento nazionale, un conto è che arrivi come necessità di adeguarsi a delle Convenzioni internazionali.
Anche nel caso dell’identità di genere dunque, la vera battaglia si sta svolgendo nelle sedi delle istituzioni internazionali e, come accennavamo all’inizio, il terreno scelto è quello dei “diritti umani”. Sia la proposta che la Francia ha portato all’Assemblea Generale dell’ONU sia il processo che sta andando avanti nella UE poggiano su un documento presentato il 26 marzo 2007 a Ginevra e noto con il nome di “Princìpi di Yogyakarta”, dal nome della città indonesiana dove si sono trovati 29 esperti internazionali di diritto per stilare questo documento.
I “Princìpi di Yogyakarta” esaminano 29 diritti già vincolanti nel diritto internazionale – come il diritto alla vita, all’educazione e alla libertà dalla tortura – e li reinterpretano uno ad uno in chiave di “identità di genere”. Peraltro nel preambolo si fissano i concetti di fondo, che è necessario qui ricordare. Per “orientamento sessuale” quindi, si deve intendere «la capacità di ogni persona per una profonda attrazione emotiva, affettiva e sessuale – e di relazioni intime e sessuali – verso individui di diverso genere o dello stesso genere o di più di un genere». Mentre con “identità di genere” ci si riferisce alla «profonda esperienza di genere interna e individuale di ciascuna persona, che può o non può coincidere con il sesso assegnato alla nascita, incluso il senso personale del corpo (che può includere, se liberamente scelto, la modificazione dell’apparenza o della funzione del corpo attraverso mezzi medici, chirurgici e altro) e altre espressioni di genere, incluso il vestire, il parlare e modi di comportarsi».
L’obbiettivo principale
In questo modo si cerca di elevare l’orientamento sessuale e l’identità di genere a diritto umano fondamentale, tanto che i “Principi di Yogyakarta” sostengono che dovrebbero essere cambiati anche i programmi scolastici, addirittura facilitando “l’accesso” per coloro che vogliono cambiare sesso, ma soprattutto insegnando la totale normalità di ogni orientamento sessuale e identità di genere, cosa che peraltro in modo “silenzioso” sta già avvenendo nelle scuole di diversi Paesi europei, soprattutto del Nord. Per quanto poi riguarda il diritto alla protezione dagli abusi medici, i 29 esperti internazionali chiedono, tra l’altro, la proibizione di ogni «trattamento o consulenza psicologica o medica che consideri – implicitamente o esplicitamente l’orientamento sessuale e l’identità di genere come condizioni mediche da trattare, curare o sopprimere».
Ai “Princìpi di Yogyakarta” faceva esplicito riferimento la mozione presentata dalla Francia all’Onu nella sua versione originale, riferimento poi tolto per l’opposizione di alcuni Paesi (tra cui non figura l’Italia). E ai “Principi di Yogyakarta” fa chiaramente riferimento il Rapporto del FRA citato in apertura, dove si può chiaramente comprendere le conseguenze concrete dell’applicazione di tali principi secondo l’indirizzo politico dell’Unione Europea. Oltre all’auspicato adeguamento dei programmi scolastici, che pure comporterebbe conseguenze ad esempio per i programmi delle scuole cattoliche, è interessante notare che un capitolo a parte è dedicato alle istituzioni religiose. Qui si lamenta da una parte l’esistenza di ampie discriminazioni, dall’altra si indicano degli esempi “positivi” nel comportamento di alcune “Chiese” protestanti che hanno aperto la porta alle ordinazioni di gay e aderiscono ai Gay Pride nazionali.
L’insidia più grande viene però dal capitolo che invoca il divieto assoluto del «linguaggio dell’odio», con «particolare attenzione» a «politici, opinionisti, esponenti religiosi e media», che implicherebbe l’impossibilità di criticare il comportamento omosessuale e «lo stile di vita gay». Si tratta di un principio che entra in evidente contrasto con la libertà di opinione come si è visto, ad esempio, in Svezia. Qui un pastore pentecostale era stato condannato per una sua predica sulla peccaminosità del comportamento omosessuale, ma la Corte Suprema ha ribaltato il verdetto sottolineando che il suo comportamento era illegale ai sensi della legge svedese, ma in questo caso scattava la protezione per il diritto di parola previsto dalla Convenzione europea sui diritti umani, che ha la precedenza sulla legge svedese. Ma è chiaro cosa accadrà se i “Princìpi di Yogyakarta” entrassero a tutti gli effetti nella Convenzione europea sui diritti umani.
Dossier: Né maschi né femmine. L’ideologia di genere
IL TIMONE N. 84 – ANNO XI – Giugno 2009 – pag. 44 – 45
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