25 anni fa, Tomas Tyn, domenicano cecoslovacco morto quarantenne nel 1990, tenne una conferenza nella quale espresse puntuali giudizi sulla situazione della Chiesa nel post-concilio. Sono ancora validi
Il grande silenzio del Concilio
Tra i temi che gli causarono una preoccupata perplessità, P. Tyn citava anzitutto la mancata condanna del comunismo, che ad un frate originario dell’Europa dell’Est stava ovviamente a cuore. In quella conferenza, P. Tyn ricordava che nel 1961, con la costituzione di indizione del Concilio Humanae salutis, Giovanni XXIII aveva denunciato il fatto «che si è formata ed ha raggiunto molti popoli una corrente di persone, agguerrita come un esercito, che negano l’esistenza di Dio». Parole pronunciate senza timore dal Papa, consapevole com’era dello sviluppo sconfortante del comunismo, che al tempo sembrava inarrestabile.
Allora, perché questo silenzio del Concilio? Secondo P. Tyn, il silenzio era frutto di un compromesso “pseudo-ecumenico”, con il quale si mirava ad ottenere la presenza ai lavori conciliari di osservatori invia ti dalla chiesa scismatica di Oriente, quella del Patriarcato di Mosca. A costoro, le autorità sovietiche non avrebbero certo permesso di partecipare se il Concilio avesse condannato il comunismo. P. Tyn, tuttavia, richiamava in quella conferenza le parole di Giovanni XXIII, evidenziando l’importanza del Magistero pontificio per cogliere la giusta chiave di lettura, sempre fedele alla Tradizione, anche di un tale, devastante fenomeno di quel tempo.
L’ecumenismo
In qualche modo collegato al tema del dialogo, vi è senza dubbio quello dell’ecumenismo.
Episodio significativo quello che vede un giorno un giovane confratello chiedere lumi a P. Tyn in merito ad un manuale sull’ecumenismo, ove si leggeva che la Chiesa Cattolica, come tutte le altre chiese, deve convertirsi a Cristo. P. Tyn, sconcertato, ricordava che la Chiesa, sposa di Cristo, è già convertita al Suo Signore e non ha bisogno di ulteriori passi.
Altro il discorso da farsi, ovviamente, sugli uomini di Chiesa che, come tutti, sono peccatori, quindi chiamati a «battere il loro petto, non quello di Santa Romana Chiesa». Citando poi la Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II, egli ricordava con la sua consueta precisione filosofica che «solo nella Chiesa Cattolica si ha la Chiesa essenzialmente, nella sussistenza», mentre «nelle altre denominazioni ecclesiastiche più o meno c’è solo una partecipazione di qualche cosa di comune».
Nel post-concilio, invece, si è diffuso uno strano complesso di inferiorità che riguarda ad esempio i Protestanti per la Scrittura o gli Ortodossi per ciò che concerne la liturgia, con un esito, però, in certi ambienti manifestatosi come paradossale: non ci si è ispirati all’Oriente per la liturgia e ai Protestanti per gli studi biblici, ma si è assunta una liturgia ispirata al protestantesimo e studi biblici ispirati all’Oriente.
Il grande equivoco
Al cuore di questa situazione si pone, secondo P. Tyn, un equivoco sulla carità slegata dalla verità, errore ribadito con estrema chiarezza da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate. Diceva nel 1985 P. Tyn: «adesso c’è tutto questo spontaneismo: amiamoci a vicenda, comprendiamoci a vicenda. Molto giusto, però bisogna instaurare questa amicizia della carità sul piano della verità». In tema di dialogo e di ecumenismo, così come frequentemente vengono intesi da certi ambienti, per P. Tyn occorreva distinguere bene il loro significato: «non vale il discorso che dobbiamo badare a ciò che ci è comune e non badare a ciò che ci divide, perché quello che ci divide non è irrilevante rispetto alla prassi».
Libertà religiosa
Il problema della verità è di strettissima attualità. Con il famoso discorso di Regensburg nel 2006, Benedetto XVI ha sottolineato la necessità di allargare gli spazi della razionalità, per non rinchiudere la ragione nel recinto dello scientismo positivista, che riconosce come vero solo ciò che è misurabile.
Un solido tomista come P. Tyn non avrebbe potuto che rallegrarsi per le parole del regnante Pontefice, ed è anche alla luce di questo importante insegnamento che possiamo leggere quanto diceva nel 1985, frutto di un pensiero – il suo – tutt’altro che debole: «la verità obbliga», la «verità che riguarda la salvezza, la salvezza eterna delle nostre anime» rimane, anche dopo il Concilio Vaticano II, un «dovere degli uomini e delle società riguardo all’unica vera religione, l’unica vera Chiesa di Cristo». Perché tra verità ed errore non c’è parità, non c’è uguaglianza di diritti. P. Tyn si opponeva decisamente, in tal modo, al soggettivismo e si erigeva a baluardo del realismo filosofico, che poteva aiutare gli uomini a comprendere la differenza fra bene e male, una distinzione salutare per le loro anime.
In questa prospettiva, egli inquadrava la libertà religiosa, che correttamente intesa non significa in alcun modo abdicare alla ricerca dell’unica verità.
Liturgia
«Lingue latinae usus salvo particulari iure»: così si legge nella Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium. Ciò nonostante, in questi ultimi decenni si è assistito alla pressoché totale scomparsa del latino, non solo nella liturgia, ma anche nella cultura.
In questa conferenza, P. Tyn si soffermava in particolare sull’affievolimento della pietà eucaristica, sottolineando il fatto che alcuni bellissimi altari, con Gesù sacramentato in mezzo, sono stati sostituiti da «tavolini [con] Gesù spostato in disparte». Quante persone si inginocchiano ancora davanti al Santissimo? «Vedete – concludeva – l’uomo non è mai così grande come quando si fa piccolo, come quando si inginocchia davanti al tabernacolo. Il Signore non ci abbandona, Lui rimane sempre in mezzo a noi, il problema è che potremmo essere noi ad abbandonarlo. Questo è quello che è orrendo: questa indifferenza, questa insensibilità all’Eucaristia».
La terapia
Di fronte a certe derive interpretative postconciliari, p. Tyn proponeva un antidoto: «Nel Concilio non c’è neanche una lettera, neanche una virgola che sia sbagliata, cioè quello che il Concilio dice è interpretabile e quindi da interpretare alla luce della Sacra Tradizione, così interpretato risulta assolutamente attendibile e santo».
Siamo – e non poteva essere diversamente – a quella che Benedetto XVI avrebbe chiamato, molti anno dopo, l’«ermeneutica della continuità».
IL TIMONE N. 94 – ANNO XII – Giugno 2010 – pag. 52 – 53
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