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12.12.2024

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Tecnocrazia, la fine della Democrazia?
31 Gennaio 2014

Tecnocrazia, la fine della Democrazia?




La politica attraversa una crisi gravissima, e si fa strada l’alternativa del tecnico al potere. Il Timone analizza le principali caratteristiche di questo inquietante fenomeno. Mettendo in guardia i cattolici da trabocchetti nascosti fin troppo bene


Con la presidenza del Consiglio dell’economista Mario Monti si è inaugurata in Italia la stagione del cosiddetto “governo tecnico”. Di fronte alla grave crisi economica internazionale, e alla difficoltà del governo Berlusconi di continuare ad avere i numeri per governare, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha preso l’iniziativa e ha portato a Palazzo Chigi non un politico ma un “esperto”. Che vi è rimasto per più di un anno, dal 16 novembre 2011 al 21 dicembre 2012.
Il modello istituzionale del governo tecnico presenta alcune caratteristiche peculiari: il tecnico non appartiene ad alcuna forza politica; non viene scelto dal voto popolare; non ha bisogno di coltivare o di difendere il consenso dell’opinione pubblica; non esprime una visione del mondo almeno formalmente ideologica; viene certificato come molto competente in materie considerate oggi strategiche, come economia e finanza; rappresenta la quint’essenza della laicità dello Stato poiché la sua fede non conta, essendo decisiva solo la sua bravura nel fare.

Le crepe del modello tecnocratico
La parabola personale di Mario Monti ha incrinato in maniera evidente alcune di queste “certezze”: ad esempio, non di rado il tecnico nasce apartitico, ma poi lo si scopre sostenuto da alcune forze politiche e osteggiato da altre, o addirittura leader di partito. Monti si è presentato sulla scena come un economista prestato alla politica, per poi diventare uno dei protagonisti del teatrino elettorale. Il che rivela un primo dato antropologico incontrovertibile: e cioè che ogni uomo, anche se privo di tessere di partito, esprime una certa visione politica. Il tecnico puro è, in altri termini, un mito. Ma l’esperimento del governo tecnico ha messo a nudo altri aspetti inquietanti: pensiamo alla deliberata sospensione del potere del popolo. Il tecnico, infatti, non esce vincitore dalle urne, ma è un “nominato”. Addirittura un sostituto di chi, al contrario, è stato eletto regolarmente dalla gente. Ovviamente il popolo può scegliere malissimo, e può volere al potere anche Stalin o Hitler; ma il modello tecnocratico presuppone che qualcuno (chi?) si prenda l’autorità di fare da correttore alla volontà della maggioranza, di fatto esautorando il popolo del potere conferitogli dalla costituzione.

Il tecnocrate e i principi non negoziabili

Mario Monti ha poi dovuto fare i conti con gli inevitabili intrecci fra esercizio del potere e questioni ideologiche e ideali: manovrare la finanza dello Stato significa anche prendere decisioni sulle famiglie e sulla proprietà privata, sulla giustizia e sulla morale; significa affrontare i cosiddetti “principi non negoziabili”, che espulsi dalla porta in nome della neutralità dei tecnici rientrano ancora più virulenti dalla finestra. Mario Monti ha cercato di fuggire come la peste questi argomenti, in perfetta coerenza con lo stile del tecnocrate; ma già il fatto di evitare questi nodi è, a suo modo, una scelta politica e giuridica. Perché in politica anche tacere è prendere posizione. Il ministro dei trasporti del Terzo Reich, ragionando da tecnocrate, avrebbe potuto cavarsela dicendo che il suo compito era quello di fare arrivare in orario i treni a destinazione, indipendentemente dal fatto che fossero diretti a Vienna o ad Auschwitz. Ma questa risposta non è ragionevole. Ecco perché il silenzio di Mario Monti su aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, matrimonio naturale smaschera comunque la natura ideologica del tecnocrate.
Di più: con la tecnocrazia si certifica in modo definitivo il divorzio tra il piano della fede e il piano della vita pubblica. L’uomo di governo si ritaglia la possibilità di essere un credente in privato, a patto che questo fatto rimanga assolutamente estraneo alla sua azione politica. Il tecnocrate deve essere pronto il venerdì – come personaggio pubblico – a mandare in croce un Uomo che si dice Figlio di Dio, e la domenica a professarsi – come privato – seguace di quello stesso Uomo. Una prova plastica di questa schizofrenia eletta a normalità si trova nella composizione delle liste che hanno sostenuto Monti in queste elezioni, liste nelle quali sono state candidate persone con posizioni diametralmente opposte sulle grandi questioni etiche del nostro tempo.

Alcune domande inquietanti
Poiché il tecnocrate non è votato dalla gente e non ha bisogno di coltivarne il consenso, è del tutto naturale porsi alcune domande. Innanzitutto: chi lo sceglie? È decisivo capire chi lo sponsorizza, chi ne parla bene, chi ne certifica la bravura al punto da trasformarlo in uomo della provvidenza (laica), cioè in colui che ha le qualità per prendere le redini del potere e fare le cose giuste. A questa domanda si può rispondere che le agenzie culturali e i mass media certificano la chiara fama di un esperto. Ma il punto è capire chi o che cosa si trovi dietro a questo paravento rassicurante.
L’altra domanda legittima è: chi controlla il tecnocrate? C’è da chiedersi cioè quali strumenti impediscano al tecnico di agire sulla base di interessi diversi, o addirittura opposti, a quelli del Paese che gli viene affidato. Evidentemente il nodo è uno solo: capire alla fine a chi risponde un sistema tecnocratico. In fondo, il tanto vilipeso uomo politico prima o poi deve presentarsi al giudizio degli elettori, che hanno sempre la possibilità di mandarlo a casa e di passare lo scettro del potere a qualcun altro. Non così per il modello tecnocratico, che anzi talvolta invoca l’impopolarità come garanzia della bontà della propria azione: più la gente è scontenta, e più significa che il tecnocrate deve essere rinforzato nel suo ruolo di governo.

Le origini storiche della tecnocrazia
Ma da dove è venuto fuori il modello tecnocratico? Occorre fare un piccolo sforzo di carattere storico, ricostruendo ciò che ha caratterizzato la civiltà cristiana in materia di esercizio dell’autorità. Semplificando molto, si può dire che per secoli il Re – lo Stato – aveva il compito di attuare il bene comune, incarnando un potere non assoluto ma subordinato all’autorità morale esercitata dalla Chiesa. Poteri distinti, mai sovrapposti, ma mai del tutto autonomi. Questo schema non ha evitato conflitti aspri e perfino guerre tra papato e impero, ma ha preservato netta l’idea di una preminenza gerarchica della Chiesa anche nelle vicende della storia, espressa bene dall’idea della regalità sociale di Cristo.
Con la fine del Medioevo si è verificato un progressivo affrancamento del potere civile dalla sovranità di Cristo mediante la Chiesa, ed è nata la società borghese e della finanza. In questa fase, gli Stati hanno conservato evidenti contenuti della morale cristiana e della legge naturale, ma sono progressivamente diventati poteri assoluti, cioè sciolti da qualunque altra autorità.
Con la Rivoluzione francese lo Stato non solo diviene autonomo dalla Chiesa, ma è contro la Chiesa, e vuole distruggerla o trasformarla in agenzia religiosa controllata dal potere politico. Sopravvive un vago riferimento alla legge naturale, ma totalmente sganciata dal Dio della rivelazione cristiana.
Con i totalitarismi del ’900, il processo rivoluzionario è portato a compimento, e lo Stato è dio. In contrapposizione ai mostri hegeliani – comunismo e nazismo – le democrazie liberali costruiscono un modello di Stato basato sulla laicità, da intendersi come neutralità del potere civile rispetto a ogni controversia di natura morale. Nasce lo Stato relativista, per il quale un aborto, una nascita, un matrimonio e una convivenza fra omosessuali sono fatti che hanno tutti il medesimo valore.
La tecnocrazia è semplicemente l’ultimo stadio dello Stato liberale: se lo Stato deve essere neutrale sulle questioni di carattere morale, la politica non serve più, perché non c’è più bisogno di compiere scelte di campo in materia di valori: l’esercizio del potere diventa una pura questione tecnica, una bravura nel manovrare il potere in modo che la macchina della società umana funzioni come si deve. La tecnica diventa sempre più importante, al punto che l’uomo ne è completamente in balia, e da soggetto si ritrova a essere oggetto di sperimentazione. Di sperimentazione scientifica – prodotto in provetta o distrutto perché difettoso – e di sperimentazione finanziaria, come numero anonimo che subisce gli effetti di un sistema economico oscuro, che non conosce e che non può controllare.
La democrazia sopravvive come paravento rassicurante, mentre oscuri poteri forti – non ultima la massoneria – prendono tutte le decisioni che contano.

IL TIMONE N. 121 – ANNO XV – Marzo 2013 – pag. 14 – 15

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