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22.12.2024

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Solzenicyn: lo scrittore nato dalla prigione e dal lager

Solzenicyn: lo scrittore nato dalla prigione e dal lager

 

In agosto è morto il più famoso oppositore del regime comunista sovietico. Con la sua opera letteraria aveva fatto conoscere nel mondo la realtà dei Gulag.
Ma seppe denunciare anche quel "mondo in frantumi" dominato dal relativismo.

La morte di Aleksandr Solženicyn ha riportato alla luce la sua grande figura, affossata e dimenticata per decenni. Proprio ora diventa quanto mai urgente comprenderne il valore, se non si vuole dissipare il lascito di un uomo che ha avuto un ruolo fondamentale nella comprensione del XX secolo.
Che lo scrittore fosse un gigante che padroneggiava gli abissi del cuore umano, lo aveva capito un altro grande genio come il teologo cattolico Hans Urs von Balthasar, che aveva decretato l'Arcipelago Gulag il libro del secolo, quello che si sarebbe dovuto mettere in salvo per primo in caso di una catastrofe mondiale (Nuovi punti fermi, Jaca Book, 1980, p. 259). Certamente von Balthasar non aveva detto una cosa del genere solo per la denuncia contenuta nel Gulag, ma per la sua organica visione dell'uomo e della storia, che rende ragione della complessità dei fatti concreti, ponendo sempre al centro dell'azione l'uomo e la sua responsabilità.

 

Le origini familiari
Già per nascita e condizione familiare Solženicyn si era trovato al cuore del "secolo breve": era nato nel 1918, praticamente assieme alla rivoluzione, da un ufficiale dell'esercito zarista e dalla figlia di un proprietario terriero, due categorie sociali aborrite dal regime, che lo avevano costretto sin da piccolo a "tenere i segreti": «La parola ufficiale era un agghiacciante grumo d'odio, non si poteva pronunciarla a voce alta tra la gente, era già controrivoluzione» (cit. da Ljudmila Saraskina in Aleksandr Solženicyn, ed. Molodaja Gvardija, Moskva 2008, p. 100).
Oltre alle origini sociali, anche l'educazione religiosa aveva concorso a fare di lui un outsider; la fede aveva segnato profondamente le sue radici anche se la scuola poi era riuscita, almeno per un certo periodo, a confondergli le idee e a trasformarlo in un giovane attivista, come tutti. Nel 1940 si era sposato, l'anno dopo si era laureato in fisica e matematica.
Questo periodo di conformismo era stato molto importante nella sua vita, perché gli aveva dato la misura della fragilità della coscienza di fronte alla menzogna, e gli aveva fatto capire quanto la vera statura di un uomo non dipenda dalla coerenza etica ma dall'adesione libera alla verità, intesa come mistero e non come dottrina ideologica. Questa facoltà di aderire o non aderire è il punto decisivo in cui può avvenire il cambiamento, l'io dell'uomo: «La linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Nel corso della vita di un cuore quella linea si sposta… Il medesimo uomo diventa, in età differenti, in differenti situazioni, completamente un'altra persona.
Ci fermiamo stupefatti davanti alla fossa dove eravamo lì lì per spingere i nostri avversari: è puro caso se i boia non siamo noi, ma loro» (Arcipelago Gulag, Mondadori, 1974, vol. I, p. 179).

 

Perdere ogni cosa per trovare il "Tutto"
La sua personale liberazione dall'idolo del marxismo era avvenuta attraverso prove molto dure, che lo avevano spinto giù per la scala sociale fino all'ultimo gradino; prima c'era stata la guerra, poi l'arresto (vissuto come un'onta, il crollo di tutto), quindi il lager, l'abbandono della moglie, la condanna al confino perpetuo e infine il tumore maligno.
Spogliato spietatamente di tutto, dei beni materiali come della professione e delle forze fisiche, Solženicyn si era ritrovato ; ciò nonostante vivo, aveva ritrovato anche la fede, e aveva guardato l'esistenza con occhi nuovi, come un dono miracoloso da far fruttare: «L'intera vita che mi è stata restituita da allora non mi appartiene più nel senso completo della parola, vi è stato immesso uno scopo» (La quercia e il vitello, Mondadori, 1975, p. 12).
Lo scopo di cui si era sentito investito era il recupero della memoria, "una sorta di servizio" per trasmettere agli altri la testimonianza della realtà che il regime tentava di distruggere. Erano iniziati anni di lavoro forsennato, Solženicyn scriveva continuamente, nascondendosi, senza perdere un minuto, preoccupato solo di dire il più possibile.
Dal 1956 al 1962 aveva scritto Il primo cerchio, Divisione cancro, abbozzato il piano dell'Arcipelago Gulag; aveva anche scritto di getto un racconto che gli avrebbe dato la fama, perché era stato il primo ad essere pubblicato in URSS, mentre tutti gli altri rimanevano nel cassetto. Era Una giornata di Ivan Denisovi?, la storia di un detenuto in un lager: quando era uscita sulla rivista Novyj mir aveva avuto l'effetto di una bomba; era andata esaurita in poche ore.
Sempre più la sua vita si era identificata con l'impegno per la memoria e la verità, e lui aveva cercato di assolverlo secondo il dono che gli era stato dato, quello dell'arte. Infatti la sua opera più famosa, l'Arcipelago Gulag, non è come molti pensano un semplice dossier che raccoglie la memoria dei lager, ma è, come ha scritto Solženicyn stesso, un «saggio di indagine letteraria» che ricrea con la verità, la profondità e l'ampiezza che solo l'arte ha l'esperienza sconvolgente dell'uomo davanti all'abisso del male.
Preso in un vortice crescente di scrittura clandestina e di cospirazioni per mettere in salvo i suoi manoscritti, Solženicyn non aveva comunque rinunciato all'esercizio della responsabilità nei confronti del paese e del governo, e in diverse occasioni si era esposto con lettere pubbliche (la Lettera al IV Congresso degli scrittori, nel 1967; la Lettera quaresimale al patriarca Pimen, nel 1972; la Lettera ai dirigenti dell'URSS, seguito dall'appello Vivere senza menzogna nel 1973). In questi scritti ogni volta aveva toccato problemi essenziali che andavano ben al di là dell'opposizione politica.

 

L'espulsione dall'Urss
Il premio Nobel ricevuto nel 1970 non aveva fatto che acuire il contrasto con i circoli ufficiali, finché nel 1974 era stato espulso dall'Unione Sovietica; aveva finito per stabilirsi nel Vermont, dove aveva trovato l'isolamento che gli era necessario per poter proseguire la stesura della sua grandiosa epopea della rivoluzione, la Ruota rossa, ma di quando in quando accettava di fare degli interventi pubblici nelle Università o alla televisione, sempre toccando nervi scoperti, mettendo a nudo verità nascoste. E ogni volta si approfondiva il solco che lo separava da una certa opinione pubblica occidentale: perché Solženicyn era un critico inesorabile del comunismo, ma non era meno critico di un Occidente soddisfatto del proprio benessere e sempre più disperato. Questa paradossale uguaglianza che stabiliva fra Est e Ovest non voleva banalmente salvare l'equilibrio, ma denunciava invece le parentele inaspettate tra il «bazar del partito» e la «fiera del commercio». Per tutto questo il suo pensiero disturbava, e la stampa occidentale aveva preso a dipingerlo come un uggioso fustigatore dei costumi.

 

Il ritorno in patria
Infine nel 1994 era tornato in patria, riaccolto con tutti gli onori, come un testimone formalmente onorato ma ormai sostanzialmente superfluo anche per la stessa Russia; il Paese, tutto preso dal business, non gli prestava più l'attenzione di un tempo. Lui però aveva continuato a lavorare e a parlare per i pochi che lo ascoltavano, capace anche da vecchio, e fino all'ultimo, di suscitare polemiche.
Il suo pensiero, la sua posizione che non lasciava spazio a demagogismi e ipocrisie, hanno suscitato sempre reazioni molto vivaci, sia in senso negativo che positivo. Un certo laicismo occidentale si è sentito urtato dal suo impianto religioso; man mano ci si rendeva conto che non sarebbe stato possibile fare di Solženicyn un semplice strumento di lotta politica, l'astio nei suoi confronti è cresciuto. Il suo pensiero disturbava soprattutto chi pensava che, in fondo, l'ideologia era buona e che era stata soltanto applicata male; e che la genialità dell'Occidente fosse quella di saper correggere e portare finalmente a compimento il sogno più bello mai concepito dall'uomo, quello di una società perfetta. Invece lui mostrava che il sogno, l'Idea con la maiuscola, aveva i tratti dell'incubo.
Ma era successo anche il contrario, ad esempio in Francia: quando l'Arcipelago Gulag era uscito, alla fine del 1973, aveva scosso molti intellettuali della sinistra, come André Glucksmann, o come Philippe Sollers, ex maoista che aveva dichiarato: «lo sono uno di quelli che la lettura di Solženicyn ha lentamente e profondamente cambiato, ho il dovere di dirlo».
Il Partito comunista francese ne era rimasto travolto.

 

L'accoglienza in Italia
In Italia, invece, negli anni '70, Solženicyn era stato accolto freddamente, circondato di indifferenza e in un secondo momento coperto di critiche supponenti. È sì vero che i fatti di terrorismo occupavano le prime pagine dei giornali, e che il "compromesso storico" sembrava offrire nuove chance ai vecchi ideali comunisti, ma il punto è che Solženicyn spiaceva a sinistra e a destra, e anche al centro, che succube dell'egemonia culturale della sinistra viveva nel terrore di dimostrarsi "visceralmente anticomunista", e quindi non si esprimeva affatto. Il fior fiore della letteratura nazionale aveva giudicato negativamente Solženicyn, tirando in ballo, per dissimulare l'origine ideologica del giudizio, supposte carenze letterarie (su questa linea erano Alberto Moravia, Umberto Eco, Carlo Cassola, Piero Citati), mentre Primo Levi aveva fatto una sorta di graduatoria etico-spirituale, dicendo che gli scrittori dell'Est hanno «una statura inferiore a quella dei loro corrispettivi che hanno combattuto il terrore hitleriano… la loro maturazione politica ci appare scarsa e grezza» (La Stampa – Tuttolibri, 25 settembre 1976).
Tutto questo nasceva da un'interpretazione esclusivamente "politica" dello scrittore russo, interpretazione che si è ripetuta meccanicamente negli anni, ad ogni occasione buona: Solženicyn conservatore nostalgico, slavofilo, antisemita, nazionalista, autoritario. Senza aver probabilmente letto i suoi nuovi interventi (né tantomeno la Ruota rossa), i giornalisti italiani nel 2002 hanno riportato le accuse di antisemitismo suscitate dal libro Duecento anni insieme (sulla tormentata convivenza di russi ed ebrei) ma non sono andati a verificare se davvero fossero giustificate. Né nel 2007 si sono accorti dell'uscita di un interessantissimo libretto sulla Rivoluzione di febbraio del 1917, in cui Solženicyn lanciava le più spietate critiche allo zarismo (ma continuano a definirlo monarchico). Anche nel 2008, una sua breve puntualizzazione sul fatto che l'holodomor ucraino non possa essere interpretato come "genocidio" (cosa che per altro dice anche l'Associazione Memorial), è stata manipolata per suggerire che il nazionalista russo odiava gli ucraini (il titolo originale: Far litigare due popoli fratelli? è stato trasformato in un aggressivo Le menzogne dei dirigenti di Kiev).
Tutte queste etichette, questi luoghi comuni, hanno continuato a spostare il problema, hanno deviato l'attenzione dal contenuto universale dell'opera di Solženicyn, che non riguarda solo il comunismo, né solo la Russia, ma tratta dell'io e dell'anima. Lo ha scritto lui stesso: «bisogna sapere come I vivere (e morire) anche senza il lager» (Arcipelago Gulag, Mondadori, 1975, vol. 2, p. 631).

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Aleksàndr Solženicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, 2001, collana I Meridiani (si tratta dell'ultima traduzione rivista dall'autore, con nuove note, cronologia e bibliografia). Esiste anche una edizione economica (Oscar Mondadori, 2001) con la traduzione precedente.
Idem, Padiglione Cancro, Newton Compton, 2005.
Idem, Una giornata di Ivàn Denisovic, Newton Compton, 2008.
Solženicyn. Vivere senza menzogna (Catalogo mostra), La Casa di Matriona, 2008.
OIivier Clément, Solženicyn in Russia, Jaca Book, 1976.
Claude Lefort, L'uomo al bando.
Riflessioni sull'Arcipelago Gulag, Vallecchi, 1981.

IL TIMONE – N.77 – ANNO X – Novembre 2008 – pag. 22-24

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