Una Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 3 dicembre 2007, ricorda il dovere missionario del battezzato. Una risposta alle stesse inquietudini di papa Paolo VI, quarant’anni fa.
Dice Benedetto XVI: «[…] è lecito ancora oggi “evangelizzare”? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo? [.. .]. Ma questa volontà di dialogo e di collaborazione significa forse allo stesso tempo che non possiamo più trasmettere il messaggio di Gesù Cristo, non più proporre agli uomini e al mondo questa chiamata e la speranza che ne deriva?
Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. Doni così grandi non sono mai destinati ad una persona sola. In Gesù Cristo è sorta per noi una grande luce, la grande Luce: non possiamo metterla sotto il moggio, ma dobbiamo elevarla sul lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa (cfr Mt 5,15» (Benedetto XVI, discorso ai membri della Curia Romana, 21 dicembre 2007).
Nel discorso alla Curia romana del 21 dicembre scorso il Papa pone una domanda fondamentale, quella relativa alla trasmissione del Vangelo della salvezza. Rispondendo a questa domanda si affermano o si negano verità importanti e decisive per ogni persona: l’esistenza di un premio e di un castigo eterni; l’unicità di Cristo come Salvatore; la Chiesa come «sacramento dell’unità del genere umano” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 775). Se non fosse previsto nel Battesimo il dovere della missione, queste tre alternative non avrebbero senso oppure, al contrario, se le’ risposte a queste alternative fossero indifferenti non avrebbe significato il dovere della missione. Infatti, se l’eternità è incerta e comunque non si distingue in essa il Paradiso dall’Inferno, la drammaticità della missione viene meno, così come se ci si può salvare ordinariamente in ogni religione l’unicità di Cristo non ha senso e dunque neppure l’evangelizzazione; ancora, se la Chiesa non anticipa in se stessa l’unità di tutti gli uomini che si compirà completamente e definitivamente alla fine dei tempi essa cessa di essere la via ordinaria alla salvezza prevista dal Signore Gesù.
La logica dell’apostolato
Allora proviamo a immaginare la cosa più semplice e ragionevole: chi ha riconosciuto in Cristo il Salvatore, pieno di gioia per aver incontrato niente di meno che Dio, nella Persona del Figlio, desidera e opera per comunicare questa fede al suo prossimo. E tanto più sarà ripieno dell’amore di Dio tanto più si allargherà il cerchio e dunque il numero delle persone coinvolte. È la logica dell’apostolato. Una logica ripresa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella Nota che ribadisce come l’evangelizzazione sia intrinseca e necessaria alla fede cristiana.
Ma ritorniamo alle parole del Papa. Due in particolare: verità e gioia. Oggi non hanno un grande appeal: la verità sembra qualcosa di irraggiungibile e che è meglio tenere lontana perché potrebbe scatenare conflitti, addirittura guerre. La protesta nel gennaio scorso contro la presenza del Papa all’Università La Sapienza esprime proprio la volontà di una parte del mondo della cultura, minoritaria ma significativa, di voler precludere alla religione di poter dire qualcosa sui temi della ragione, quindi di voler escludere la ricerca della verità dall’ambito accademico e scientifico.
La gioia invece è estranea alla società dei consumi, che ha perso la semplicità e concepisce il consumo come uno scopo, non come un modo per vivere meglio e per tendere con più facilità al fine ultimo della vita umana.
Il significato del dialogo
Ma la verità è spesso assente anche nella predicazione e nella pastorale della Chiesa, oggi. E il Papa che invece insiste su questo aspetto viene silenziosamente contestato e rifiutato anche da molti preti e laici cattolici. Lo si capisce dal silenzio che avvolge per esempio le sue due encicliche, poco riprese nelle diverse diocesi, così come i suoi continui interventi sulla centralità della ragione, base di ogni possibile dialogo per la ricerca della verità con chi non professa la nostra fede. Ma allora viene da pensare che il Papa è favorevole al dialogo e molti altri cattolici no?
Tutti sono favorevoli al dialogo e sarebbe insensato se così non fosse in un mondo pluralistico come il nostro, ma il dialogo che si fonda sulla ragione, comune a ogni uomo, sa che la verità esiste e che attraverso la ragione tutti gli uomini possono almeno parzialmente conoscerla. Gli altri, che pure vogliono il dialogo, lo riducono a un incontro dopo il quale ciascuno rimane se stesso, perché comunque non c’è una verità da conoscere e da riconoscere.
Il dialogo, in sostanza, ha senso soltanto se esiste una verità alla portata dell’intelligenza di chi appunto dialoga, esterna a chi dialoga, altrimenti diventa un mezzo per insinuare dubbi, per diffondere incertezze.
Il Credo del Popolo di Dio di Paolo VI
Ne era cosciente già papa Paolo VI nel 1968. Per questo volle concludere l’Anno della Fede con il “Credo del popolo di Dio”, la solenne professione di Fede del 30 giugno 1968, avvenuta davanti alla Basilica di San Pietro, con grande solennità. Una Professione che si allacciava esplicitamente al Concilio di Nicea, «il Credo dell’immortale tradizione della santa Chiesa di Dio» scriverà sempre Paolo VI, perché tutti i fedeli sapessero che la Chiesa può e deve «approfondire» la professione di Fede per presentarla meglio alle generazioni che si succedono, come la Chiesa ha sempre fatto, ma non può «intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana». In questo Motu proprio il Pontefice esprimeva tutta la propria inquietudine per quanto stava accadendo dentro e fuori della Chiesa, in quell’anno “fatale”, giustamente “chiamato” da Giuliano Ferrara 67 + 1. In numerosi discorsi che accompagneranno gli ultimi dieci anni di pontificato, Paolo VI si rende conto che la rivoluzione culturale che minaccia la stabilità della società era penetrata anche nella Chiesa e che nel Concilio, e soprattutto negli anni successivi, il malessere che all’inizio del secolo aveva prodotto il modernismo si stava ripresentando in maniera ancora più aggressiva. E, come per il modernismo, il problema maggiore era l’atteggiamento dei cattolici di fronte al mondo moderno, alla sua cultura, alle sue domande, alle contraddizioni anche reali che ogni persona poteva sperimentare.
Era anzitutto la verità stessa, l’intelligibilità del reale, ad essere stata messa in discussione dalla sostituzione del principio di realtà con il relativismo e il soggettivismo, e così Paolo VI lo metteva in luce, anticipando di 40 anni le riflessioni analoghe di papa Ratzinger sull’uso della ragione: «… l’intelligenza dataci da Dio raggiunge la realtà (ciò che è), e non soltanto l’espressione soggettiva delle strutture e dell’evoluzione della coscienza» (n. 5). Il Papa capiva che se il dogma dell’opinione relativistica avesse sostituito nel cuore e nella mente delle persone la possibilità di cercare e trovare la verità delle cose, anche la Verità che salva, Dio e la Persona del Figlio Gesù, sarebbero diventati estranei alla mentalità della generazione che stava entrando come protagonista nella storia.
Oggi questa generazione ha quarant’anni di più. Il Sessantotto l’ha trasformata, illudendola circa una rivoluzione che è politicamente e militarmente fallita, ma ha prodotto guasti profondi nella cultura, nel costume e nella psiche. Fallite le ideologie, che offrivano risposte perverse a domande serie e importanti, a questa generazione e a coloro che sono nati dopo di essa rimane soltanto la speranza cristiana. Una speranza offerta a tutti, non individualistica, ragionevole, fondata sulla realtà dell’uomo così come è veramente, lontana dall’utopia ideologica dell’uomo nuovo e rivoluzionario. Una speranza che può dare la gioia concessa all’uomo in questa valle di lacrime. Ma che ha bisogno di qualcuno che la trasmetta continuamente, di generazione in generazione, come appunto ha voluto ricordare la Nota su alcuni aspetti dell’evangelizzazione.
RICORDA
«Nessuno ha da ridire se un missionario sfama e disseta un povero: non fa che mettere in comune un bene materiale per salvare un essere umano dalla morte. Allora perché scandalizzarsi quando lo rende partecipe del bene più prezioso che ha, cioè la fede in Cristo? La salvezza materiale non sostituisce né rende superflua la salvezza spirituale. Ciò che lega i due gesti è sempre l’amore e il rispetto per l’altro». (Intervista all’arcivescovo Angelo Amato, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, in L’Osservatore Romano, 15 dicembre 2007).
BIBLIOGRAFIA
Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, 3 dicembre 2007 (con approvazione del Papa del 6 ottobre 2007).
L’evangelizzazione rispetta e valorizza la libertà dell’altro, intervista all’arcivescovo Angelo Amato, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, a cura di Francesco M. Valiante, in L’Osservatore Romano, 15 dicembre 2007.
Angelo Amato, Evangelizzazione fra malintesi ed erronee interpretazioni, in L’Osservatore Romano, 16 gennaio 2008.
IL TIMONE N. 71 – ANNO X – Marzo 2008 – pag. 58-59