Ai sicari che la mattina del 21 settembre 1990 lo freddarono nelle campagne agrigentine, il giudice Rosario Livatino chiese: «Che cosa vi ho fatto, picciotti?». Li guardava negli occhi e quell’immagine dai contorni evangelici è ancor’oggi impressa nella mente di Domenico Pace, il killer del Giudice ragazzino che recentemente ha chiesto perdono alla famiglia con una lettera scritta al Papa. Parlare della santità di Rosario Livatino è un avventurarsi in un’esperienza umana cristallina e premonitrice, in un’avventura della Provvidenza che gli fece segnare con l’inchiostro rosso la data nella sua agenda che battezzò il suo ingresso in magistratura.
Eppure, tra le vittime della Mafia, Livatino è oggi soltanto una tra le tante, meno importante mediaticamente dei colleghi Falcone e Borsellino annientati da Cosa Nostra tre anni più tardi. Raccontare la storia di Livatino è invece un passaggio indispensabile per capire come la lotta alla Mafia parta primariamente da una conversione dei cuori e per smentire i rigurgiti di certa aneddotica, oggi anche germinata nel mondo cattolico, che accusa la Chiesa di essere silente o indifferente, quando non complice, del fenomeno mafioso…
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