Diventa ogni giorno più pressante il bisogno di un'etica autentica, cioè di un sapere che non si limiti a descrivere i fatti e a conoscere le leggi che li governano, ma che giudichi la realtà in termini di bene e di male, di giusto e ingiusto.
Per rispondere a questo bisogno è necessario superare la cosiddetta «legge di Hume» che vieta di passare dalla descrizione dei fatti alla prescrizione della legge morale corrispondente, perché si ritiene che sui valori la ragione sarebbe muta. Assumere questa «legge» come punto di partenza indiscutibile per la riflessione ha come conseguenza la riduzione dell'etica a qualcosa che rimane nella sfera della soggettività e quindi non può avere la pretesa di valere per tutti gli uomini.
La conseguenza logica della frattura tra fatti e valori è il neutralismo o relativismo etico, cioè l'idea che tutti i criteri di scelta sono legittimi e hanno eguale dignità.
La giornata del «coraggio laico», organizzata a Roma in contrapposizione al «Family day», ha voluto esprimere questa prospettiva, giocando in modo aggressivo la carta dell'accusa d'intolleranza scagliata contro quelli che, scendendo in piazza per testimoniare che il luogo della vita dell'uomo è la famiglia, affermavano con ciò che ci sono principi indisponibili.
Certamente vi sono delle scelte che dipendono dalle preferenze personali, ma, come notava già Bertrand Russell (1872- 1970), in polemica col soggettivismo emotivista, non si può mettere sullo stesso piano un discorso sulla bontà o meno delle ostriche e un discorso sulla liceità o meno di torturare gli ebrei; se i gusti gastronomici sono soggettivi, l'uso della tortura non lo è.
Come è noto, il problema costituito dalla presenza del relativismo etico non è nuovo, anche se attualmente viene formulato con teorie molto più raffinate rispetto alle età precedenti.
Ad essere del tutto nuovo, invece, è il pericolo che esso oggi rappresenta a causa del grande sviluppo delle capacità tecniche relative all'intervento sulla vita e sulla salute dell'uomo, nonché sull'ambiente che costituisce l'habitat dell'uomo. Ciò che oggi è in gioco è la sopravvivenza stessa dell'umanità. È questa la persuasione che Hans Jonas (1903-1993) sostiene nella sua opera principale Il principio responsabilità. Ricerca di un'etica per la civiltà tecnologica.
Secondo Jonas è necessario elaborare una nuova etica della responsabilità che consideri le conseguenze a lungo termine del nostro agire, prevedendo il destino che le nostre azioni attuali determineranno per le generazioni future e agendo in modo che le conseguenze dell'azione «siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra».
Ma su cosa si fonda il dovere di proteggere la continuità della vita umana sulla terra, perché bisogna sacrificarsi oggi perché sia possibile «un'autentica vita umana» nel futuro? E ancora, che cosa s'intende con «autentica vita umana»? Jonas afferma che esiste un finalismo intrinseco alle cose, per cui la vita esige di essere conservata. Dichiarando il primato del fine sull'assenza del fine e dell'essere sul non essere, Jonas fonda l'etica sulla metafisica e rifiuta la cosiddetta «legge di Hume», che come abbiamo detto, consiste nel divieto tipico della filosofia moderna di passare dalla descrizione dei fatti alla prescrizione della legge morale.
Jonas è consapevole che la sua tesi contraddice i dogmi più consolidati del nostro tempo, cioè che non esista una verità metafisica e che dall'essere non sia deducibile alcun dover essere, ma osserva che questi dogmi non sono mai stati seriamente messi alla prova e che si basano su un concetto di essere già opportunamente «neutralizzato», ridotto a contenuto del pensiero umano, secondo lo stile delle scienze naturali. Egli ritiene che muovere da tale ipotesi sull'essere sia espressione di una scelta già compiuta a favore di una metafisica che non si confronta con la realtà.
Per uscire da questa prospettiva sterile bisogna dire «sì alla vita», ma non come auspicato da Nietzsche, bensì attraverso il senso di responsabilità che Jonas fonda sull'inizio di ogni essere umano, un inizio che si offre continuamente allo sguardo: «il neonato, il cui solo respiro rivolge inconfutabilmente un "devi" all'ambiente circostante affinché si prenda cura di lui […]. Dico inconfutabilmente e non irresistibilmente, perché è naturalmente possibile resistere alla forza di questo come di ogni altro "devi"». Non si tratta di implorazione, perché l'implorazione non è ancora vincolante; non si tratta neppure di compassione o pietà o amore: «Intendo sostenere davvero in senso stretto che qui l'essere di un ente […] postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri».
A partire da questo fondamento, Jonas delinea un'etica della «sopravvivenza» da contrapporre alle utopie, trasformate in temibili programmi di asservimento della natura e dell'uomo. AI «principio speranza» delle utopie, che si dispiega con euforia prometeica ed è fonte di obiettivi il cui perseguimento provoca la catastrofe, deve essere sostituito il «principio responsabilità», che si alimenta sia di speranza (una speranza «modesta», che non ha la pretesa di realizzare il Paradiso in terra), sia di paura e guida l'azione con cautela.
Bisogna riscoprire il valore della paura al di là del discredito in cui è caduta; essa è un elemento costitutivo della responsabilità non in quanto dissuade dall'azione, ma in quanto mette in luce la vulnerabilità dell'oggetto della responsabilità e consente la scoperta di doveri concreti nella tutela dell'uomo e del mondo.
La speranza «modesta» da cui sorge la responsabilità è innanzitutto speranza nella ragione umana in cui Jonas ripone fiducia, sia perché, se è stata capace di forgiare gli strumenti del potere sarà anche in grado di circoscriverlo, sia perché sarebbe irresponsabile dubitare di essa non avendo alternative possibili per salvaguardare l'uomo.
A partire dalla sua etica della responsabilità Jonas ha difeso la sacralità della vita contro la «tentazione prometeica di giocare con il seme»; contemporaneamente, tuttavia, ha (discutibilmente) criticato l'etica tradizionale di matrice greca e giudaico-cristiana, da lui considerata miope e spietatamente antropocentrica. La nuova etica da lui proposta dovrebbe tenere conto sia degli effetti a lungo termine del nostro agire per le generazioni future, sia del mondo extraumano; ha criticato di conseguenza anche l'insegnamento della Chiesa sulla procreazione, giudicandolo «dissennato» alla luce di una ipotetica catastrofe ecologica.
In conclusione, la riflessione di Jonas appare apprezzabile per lo sforzo di superare il relativismo, è meno convincente nell'identificare gli aspetti che consentono di definire «l'autentica vita umana», cioè quella natura che non muta con il mutare delle situazioni storiche.
Ricorda
«Come emerge in modo assai significativo nell'opera di Hans Jonas la riflessione ecologica ripropone oggi in forma eclatante il senso della natura come "limite" della nostra libertà; un limite che ha in sé una dignità che non va calpestata.
Hegelianamente potremmo dire che la cosiddetta "natura esterna" è certamente una natura "per noi", qualcosa di cui possiamo disporre per i nostri scopi; ma è anche "natura in sé", ossia qualcosa, il cui telos non si esaurisce nell'essere a nostra disposizione e che quindi, proprio per questo, chiede anche di essere rispettato».
(Sergio Belardinelli, La bioetica tra natura e cultura. Un approccio relazionale,
http://www.governo.itlbioetica/testi/BIOETICA15anni.pdf p. 195).
Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, 2005.
Sulla fondazione dell'etica rimangono fondamentali l'opera di KaroI WoJtyla, Persona e atto, Ubreria Editrice vaticana, 1980 e l'enciclica di Giovanni Paolo II, Veritatis splendor.
IL TIMONE – N.66 – ANNO IX – Settembre/Ottobre 2007 pag. 30-31