Dalla inimicizia tra ragione e intelletto, tipica del pensiero moderno, deriva la separazione tra fede e filosofia. Che invece, pur distinte, marciano insieme. Per cogliere il vero. E dunque anche Dio.
Augusto Del Noce (1910-1989) è tra i pensatori contemporanei che hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione di un quadro storico-critico della storia della filosofia e dei suoi rapporti con la religione e con la politica. L’ipotesi interpretativa proposta da Del Noce è che la filosofia moderna può essere compresa nel suo significato più profondo a partire dall’opzione tra metodo dell’immanenza gnoseologica e filosofia dell’essere.
Il termine immanenza (dal latino in-manens = che resta dentro) indica il permanere di un’azione all’interno del soggetto; una filosofia è caratterizzata dall’immanenza gnoseologica quando afferma che la verità è prodotta dal soggetto e pertanto è totalmente “contenibile” dalla ragione.
Il metodo dell’immanenza gnoseologica è all’origine del razionalismo, posizione che si trova mescolata alla struttura di molte filosofie.
Il razionalismo attribuisce un’importanza esagerata e talvolta esclusiva alle certezze che derivano dal ragionamento, mentre nega o trascura il ruolo dell’intelletto che ha la funzione di trarre dalla realtà le conoscenze intuitive su cui successivamente si esercita il raziocinio. L’esclusione dell’opera dell’intelletto provoca la perdita dei principi metafisici colti nell’esperienza dal “senso comune”, perché tali principi non sono posti dalla ragione discorsiva, ma, appunto, astratti dal reale.
Da questo modo di utilizzare la ragione deriva una filosofia che, avendo rinunciato all’evidenza dei “fatti”, rifiuta anche di prendere in considerazione il “fatto” di Dio che si rivela, ritenendolo un compito incompatibile con la sua funzione.
Scrive Giovanni Paolo II: “L’argomentazione sviluppata secondo rigorosi criteri razionali […] è garanzia di risultati universalmente validi […]. Da questa corretta istanza si allontana in modo netto la teoria della cosiddetta filosofia “separata”, perseguita da parecchi filosofi moderni. Più che l’affermazione della giusta autonomia del filosofare, essa costituisce la rivendicazione di un’autosufficienza del pensiero che si rivela […] illegittima” (Fides et ratto, 75). Un autore che ha avuto un ruolo fondamentale nel tracciare la via della separazione tra filosofia e rivelazione è Rene Descartes (1596-1650).
Senza voler intervenire nel complesso dibattito storiografico sull’interpretazione più opportuna del sistema cartesiano, si può osservare che nella sua opera Discorso sul metodo Descartes propone una tematizzazione rigorosa del “metodo dell’immanenza”. Nel sommario preliminare inserito nella versione francese del “Discorso”, l’autore presenta il contenuto dell’opuscolo dividendolo in sei parti; per il nostro argomento sono di particolare interesse le prime due. Dopo aver presentato il progetto di una scienza universale, concepita come conoscenza perfetta e tale da innalzare la nostra natura a un alto grado di perfezione, affronta il problema del metodo che una tale scienza deve avere. Poiché gli sembra di qualche utilità ciò che ha appreso dalla logica, dall’analisi geometrica e dall’algebra, cerca di sintetizzare le regole metodiche seguite da tali discipline riducendole a quattro. La prima di tali regole consiste nel “non ritenere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza”; a tale scopo Descartes ritiene necessario smantellare tutto il sapere anteriore utilizzando un mezzo semplice e radicale: sottoporre a critica il sapere tratto dall’esperienza attraverso il dubbio metodico. Se si “vuole”, si può dubitare di tutto. L’unica certezza che resiste al dubbio cartesiano è: “penso, dunque sono”, il famoso “cogito ergo sum”.
Sintetizzando, il “metodo” elaborato da Descartes consiste: 1) nel rifiuto, attraverso il “dubbio metodico”, dell’evidenza dei sensi, testimoni di una realtà che esiste senza essere stata posta dalla ragione; 2) nel porre come punto di partenza della conoscenza un pensiero autosufficiente.
La pretesa dell’autosufficienza è però illegittima sia da un punto di vista teoretico che da un punto di vista morale. Da un punto di vista teoretico vale l’osservazione di don Pietro Cantoni (Metafisica I, ad uso degli studenti, Cama-iore2001, p. 48): “[…] l’oggetto apparirebbe come un prodotto del pensiero. Ora il pensiero non dimostra il suo oggetto, ma, a partire dall’oggetto che innanzitutto vede, può dimostrare altre cose […]. Non si può partire assolutamente da zero. Se si parte da zero si rimane a zero. Il presupposto fondamentale del pensiero è l’essere, rispetto al quale il pensiero si costituisce come tale”. L’illegittimità morale deriva invece dal fatto che la scelta di accogliere l’evidenza o di negarla non ha lo stesso peso davanti alla coscienza: nel giudizio della coscienza infatti si rivela il vincolo tra verità e libertà (cfr. Veritatis splendor, nn. 57-61).
Il legame tra verità e libertà dipende dalla stessa natura umana: l’uomo si “trova” come qualcuno che è chiamato a partecipare alla verità e all’amore perché è capace di riconoscere il senso e il valore dell’essere, cogliendolo come manifestazione “vera” e “buona” della causa prima. Il fatto che rivela all’uomo la sua strutturale apertura alla trascendenza è la capacità di cogliere la realtà come dipendente da una causa che lo supera; in essa, l’uomo scopre anche di potersi porre in rapporto personale con Dio. Scrive Giovanni Paolo II: “Dio nella creazione ha rivelato sé stesso come onnipotenza, che è amore. Nello stesso tempo ha rivelato all’uomo che […] è chiamato a partecipare alla verità e all’amore […]. Ma l’uomo, sotto l’influenza del “padre della menzogna”, sì è distaccato da questa partecipazione” (Dominum et vivificantem, n. 37). Sotto l’influenza del “padre della menzogna” l’uomo può rifiutare il “fatto” della propria “creaturalità” compiendo una scelta che “non è solo disobbedienza, ma porta con sé anche una certa adesione alla motivazione contenuta nella prima istigazione al peccato; [questa motivazione è] al centro di ciò che si potrebbe chiamare I'”anti-Verbo”, cioè l'”anti-verità”. Viene, infatti, falsata la verità sull’uomo: chi è l’uomo e quali sono i limiti invalicabili del suo essere e della sua libertà. Questa “anti-verità” è possibile perché contemporaneamente viene falsata la verità su chi è Dio. Il Dio creatore viene posto […] in stato di accusa nella coscienza della creatura” (Dominum et vivificantem, n.37).
Col rifiuto dell’evidenza dell’essere insieme alla trascendenza viene perduta senza rimedio anche la dimensione dell’esistenza concreta degli enti: se si dubita della realtà per poi recuperarla attraverso le idee chiare e distinte del “cogito”, il contenuto che viene recuperato è solo il concetto della “cosa”, la realtà in quanto è “pensata” e dominata dalla razionalità e non l’esistenza concreta, I'”atto di essere” che da consistenza reale all’ente .
A ragione dunque Del Noce afferma che la vera alternativa al metodo dell’immanenza è la filosofia dell’essere.
GLOSSARIO
Intelletto. Dal latino “intellectus, -a, -um”, part. pass. del verbo “intus-legere = leggere dentro” dunque ciò che è letto dentro (l’oggetto). È la facoltà di cogliere l’oggetto nella sua unità essenziale; alla sua attività appartengono la cognizione dei principi primi, l’astrazione delle idee, i giudizi, i ragionamenti.
Ragione. Facoltà conoscitiva propria dell’uomo che raggiunge la verità non immediatamente, mediante l’intuizione, ma discorsivamente attraverso l’elaborazione dei dati, cioè attraverso il ragionamento o raziocinio.
BIBLIOGRAFIA
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