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3.12.2024

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Peccati
31 Gennaio 2014

Peccati

 

 

La misura del fallimento, per ora, della «rievangelizzazione»dell’Occidente è data dalla risposta che danno gli italiani (cioè, il popolo più cattolico del mondo, stando alle statistiche) alla domanda «che cos’è il peccato?». Infatti, la risposta quasi unanime sembra essere: boh. Si, perché a un’indagine in tal senso condotta dalla rivista Class nel settembre 2004 gli intervistati hanno dato una serie di risposte una più strampalata dell’altra. Si va da «non eseguire la raccolta differenziata dei rifiuti» a «far respirare fumo passivo» (considerati peccati «gravi» da grosse percentuali). Addirittura, per moltissimi il «confessionale» non è che la stanza rossa dello show «Il Grande Fratello». Rivelatrice la risposta data alla domanda su qual sia la categoria che, oggi, mantiene viva l’idea stessa di «peccato»: i magistrati, seguiti da carabinieri e vigili urbani, in una classifica che vede i preti solo quarti davanti a medici e psicologi. Il che significa che, ormai, nella mente dei più «peccato» coincide con «illegalità».
Tuttavia, sappiamo bene che quest’ultimo è un concetto variabile: non essendo il diritto ancorato ad alcunché di eterno ed immutabile, superiore perfino allo Stato e a cui lo Stato stesso debba adeguarsi, quel che è illegale oggi potrebbe non esserlo domani. Da qui la guerra delle lobbies ideologiche che cercano di far depenalizzare or questo or quello, in una rincorsa senza fine tendente alla «liberalizzazione»di tutto. Così, nessuna meraviglia che il «peccato» sia diventato solo quello che viene emotivamente sentito come tale, ma che domani, a seconda dell’efficacia delle varie propagande possa non esserlo più. Un esempio per tutti: l’omosessualità era considerata dai più un peccato contro la natura fino a pochi decenni fa; oggi, fa pacificamente parte della piattaforma elettorale di partiti e candidati alla presidenza; anzi, la posizione di pochi decenni fa è diventata un reato di molte legislazioni. In Svezia, infatti, un pastore luterano si è fatto un mese di galera per aver commentato in una predica i passi della Bibbia che deprecano l’omosessualità.
Ma l’inchiesta di Class evidenzia anche qualcos’altro, e cioè il grado di superficializzazione delle coscienze e la diffusa acquiescenza a farsele plasmare dai media, televisione in primis. Quel che si ricava dalla quasi totalità delle risposte è l’assoluta indifferenza a quella che un tempo era chiamata «vita eterna», un tempo la cosa più importante e oggi di nessuna importanza. Già, perché il «peccato» a quella si riferiva, essendone l’unico angoscioso ostacolo. Morto il peccato, va da sé che non servono a nulla né un Redentore né un’organizzazione che fornisca i mezzi e gli insegnamenti per vincerlo. Ma è altamente significativo che sia stato un mensile di intrattenimento come Class a dedicare la copertina al tema, e non la miriade di pubblicazioni (nonché le radio e le televisioni) cattoliche. Ogni domenica (e non solo) i parroci hanno la possibilità di parlare per circa mezz’ora al popolo, cosa che si dovrebbe aggiungere alle già notevolissime possibilità comunicatorie della Chiesa.
Ma tutto questo a cosa serve? La domanda non è oziosa, dal momento che il 28% degli intervistati dichiara essere peccato «non fare ciò che realmente si desidera». E il 37% non crede affatto neanche all’esistenza del peccato. Il 17% ammette, sì, di crederci, ma si chiama fuori dalla categoria dei peccatori.
Addirittura, per 1’80% è peccato solo fare del male alle persone «care». Insomma, gli uomini di Chiesa impegnati nella rievangelizzazione dovrebbero riflettere su questi dati. Ma soprattutto sul fatto che di rievangelizzazione si parla ormai da decenni. Sarebbe l’ora di smettere di organizzare convegni sul «come» rievangelizzare e finalmente farlo. Magari cominciando dalle omelie. Non ci si stupisca, altrimenti, del fatto che sono in aumento quelli che si volgono a religioni (come l’islam) che danno risposte chiare e forti alle domande veramente importanti.
Già, le omelie. Anche il cardinale di Milano, Tettamanzi, è intervenuto sul tema nello stesso settembre, invitando a non trasformare le funzioni domenicali in intrattenimenti «sciatti e noiosi». Già più volte abbiamo puntato il dito su questa piaga e non ci torneremo sopra. Infatti, molte messe sembrano condannate a questo pendolo: quando non sono «sciatte e noiose» si trasformano in uno show da villaggio turistico. Di tornare all’antico non se ne parla nemmeno, per i preti, ed eccoli tutti a inventare letteralmente nuove ritualità e simbologie. L’alternativa è la piattezza «sciatta e noiosa». Ma, giustamente, è l’omelia quella che occupa il proscenio per metà del tempo. Come fare per sfuggire all’«aria fritta» propinata in molte di esse? Innanzitutto il tempo: nelle cosiddette scuole di comunicazione si insegna che, statisticamente, dopo i sedici minuti l’attenzione registra una caduta verticale. Dunque, una prima utile misura dovrebbe essere quella di accorciare la loquela. Già viviamo in un mondo di chiacchiere (mediatiche, politiche, televisive, pubblicitarie) e varrebbe la pena di riscoprire la virtù evangelica del silenzio. Pensate un po’: la chiesa, la domenica, l’unico posto in cui tutti stessero zitti. Invece no. Epperò c’è un problema, dal momento che i parroci oggi hanno tanto di quel da fare da non avere il tempo di preparare l’omelia. Cioè, scriverla dopo aver studiato e consultato testi. Magari dopo aver ben ri-flettuto. Il risultato è il generico fervori no che prende spunto, lì per lì, da uno dei brani scritturali appena sentiti, e si allarga al commento di un fatto eclatante della cronaca del giorno prima. Non vi dico il tedio.
Certo, non si può pensare che i preti siano tutti degli oratori trascinanti, perché questi sono rari anche in campo laico. Ma qualcosa si può fare, magari accorciando i tempi (meglio che niente) e, alla luce di quel che si è visto, concentrarsi sui cosiddetti Novissimi. Infine, prendere il coraggio a due mani e spiegare il peccato. Anche se non è politicamente corretto.

IL TIMONE – N. 41 – ANNO VII – Marzo 2005 pag. 20 -21

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