Autore della magistrale “Storia di Cristo”, visse in prima persona la crisi della cultura atea e positivista. Poi abbracciò la vera fede. I suoi libri testimoniano un cattolicesimo robusto e senza sconti. Come la sua vita.
Papini appartiene a un’era tramontata per sempre, l’epoca nella quale agli scrittori si tributava (talvolta erroneamente) il massimo rispetto: allora ogni uomo colto, col suo bel tomo in mano, uscito dal libraio se ne tornava a casa dove, seduto in poltrona, apriva il volume appena acquistato, gustandosi le pagine intonse, centellinandone le sentenze e la struttura.
Ora, quel tempo e quei modi sono finiti una volta per tutte, nel bene e nel male. E molti credono (errando) che con le parole di colui che fu l’illustre esponente di quell’estremo umanesimo non si debbano più fare i conti. E invece no: primo, perché le sue geniali impertinenze provocano tuttora le intelligenze; secondo, perché uno studioso onesto che oggi si guardi intorno nella “repubblica delle lettere” scoprirebbe che non siamo affatto migliori dei nostri padri. Volgiamoci a Papini dunque.
Un uomo finito
Nato a Firenze il 9 gennaio 1881 da padre ateo, repubblicano, ed ex garibaldino, Giovanni Papini diciottenne si diplomò maestro: correvano ancora gli anni in cui tale professione costituiva una prerogativa d’autorevolezza e probità; ma la sua passione era lo studio dell’antropologia, la “scienza dell’uomo”. Fu talento precoce e quasi un infante prodigio: il 4 gennaio del 1903 pubblicò il primo numero della rivista «Il Leonardo», da lui fondata e diretta; presto usciranno anche i primi libri, squisitamente filosofici; poi sarà la volta di Parigi, presso l’amico Ardengo Soffici. Dal 1908 fu a «La Voce», rivista fondata da Prezzolini per forgiare la mentalità (laicista) delle classi dirigenti italiane dell’epoca; era cosa fatta: il giovane Papini entrava nella storia della letteratura.
Ma il traguardo smaniosamente ambito da generazioni di pennaioli, e negato alla di loro stragrande maggioranza, una volta conseguito non soddisfece il nostro, tanto che nel gennaio 1913 usciva la sua “autobiografia” (e aveva solo trentadue anni!) dal titolo eloquentissimo: Un uomo finito. Fu un singolare esame di coscienza in pubblico, in usuale per gli intellettuali che vedevano nelle “belle lettere” il mezzo per accumulare potere e benemerenze; segno che il castello interiore di Papini stava per barcollare. Fondata una nuova rivista «Lacerba», e dopo aver aderito al movimento futuri sta, lo scrittore chiese di arruolarsi volontario nell’Esercito, ma venne riformato a causa della forte miopia e dovette ritornare a carta e penna e calamaio e alle sue oramai famigerate stroncature. Eppure quelle esperienze avevano lasciato un segno che non avrebbe tardato a germinare.
Nell’agosto 1919, a seguito di una grave crisi spirituale dovuta alla tragedia della guerra, Papini si mise a scrivere per improvvisa ispirazione la Storia di Cristo: pubblicato due anni dopo, il libro ottenne un rapidissimo successo mondiale (tanto che ancora pochi mesi fa il papa Benedetto XVI lo ha autorevolmente menzionato): e giustamente, perché è tutt’oggi un’appassionante “romanzo” che conduce nel cuore della vita del Figlio di Dio. Però la vicenda papiniana era fatalmente segnata dal tormento: nel ’22 rifiutò la cattedra di letteratura italiana offertagli dall’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, mentre la sua linea spirituale puntava dritta verso la conversione.
Frutto di quel clima fu il libro redatto in poche settimane, intitolato La seconda nascita, che uscirà postumo.
Il pilota cieco
«Dacché ho trovato Papini, mi par di vivere in un mondo nuovo. Che cos’è Papini? Non lo so. Alle volte mi pare un arcangelo, gli s’illuminano gli occhi e ci sono riflessi d’oro sui suoi capelli ricciuti, come un’aureola.
Alle volte mi pare uno gnomo, storto, maligno, unghioso. Ha un’abilità non comune nello scoprire difetti negli uomini, anche fisici, da sbarazzino fiorentino, e non riflette che se guardassero lui gli altri come lui guarda gli altri… Legge, legge, legge; annota, annota, annota. Ha delle cassetti ne di ritagli di carta, che chiama “schede”, sulle quali curva la testa dagli occhi miopi, bulbosi, gli occhi tesi di chi non vede bene, coperti da occhiali, e le gratta con mani rapaci, finché non ha trovato il titolo, il nome, il verso, la nota che cercava. Allora rialza trionfalmente la testa, caccia fuori il pezzettin di carta, lo sbandiera e gli occhi gli splendono. Ha vinto. Ha ragione lui»: così annotava Giuseppe Prezzolini, nel suo “Diario 1900-1941”.
Del resto, un efficace autoritratto ci è fornito dal titolo di un volume dell’autore medesimo: Il pilota cieco (1907). Vale a dire, l’ammissione di una sconfitta della filosofia successiva al Positivismo: «Siamo all’ultimo stadio dell’ateismo e i vecchi atei, co’ loro pizzi massonici e i loro predicozzi tra fulminanti e ruttanti, mandano a’ nostri nasi un odor d’incenso che appesta» (si badi anche alla violenza verbale papiniana). A maggior ragione Papini fu un imperdonabile, proprio per via del suo abbandonare la cultura dominante alla quale era appartenuto per decenni.
Gli anni Trenta furono per lui un tranquillo e inquieto approdare alla fede fatta cultura: partecipò alla fondazione della rivista «Il Frontespizio» diretta da Piero Bargellini, rifiutò la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Bologna, che era già stata di Carducci e Pascoli. Va detto però che vi rinunciò per l’aggravarsi della malattia agli occhi. Nominato nel ’36 Accademico d’Italia, Papini iniziava un’intensa attività accademica: dalla compilazione del vocabolario della lingua, al primo volume di una Storia della letteratura italiana (opera interrotta perché esigeva un eccessivo sforzo della vista nelle ricerche) alla fondazione fiorentina di un Centro di studi per il Rinascimento.
Papini fu da allora in poi un poligrafo cristiano, poiché le sue pagine puntavano sempre al midollo spirituale che è nella grande poesia di tutti i tempi: dopo aver trascorso il periodo bellico presso il convento della Verna, divenne terziario francescano col nome di fra’ Bonaventura. Anche per questo, nell’aprile 1944 respinse la nomina offertagli di Presidente dell’Accademia d’Italia, dopo l’uccisione di Giovanni Gentile, e nello stesso ottobre ritornava nella sua casa di Firenze, dopo aver trascorso un mese ospite del Vescovo di Arezzo. Quando nel ’46 partecipò alla fondazione della rivista teologica «L’Ultima», intese passare il testimone ad altri studiosi, coriacei nella fede, più giovani di lui.
E così il “pilota cieco” approdava al porto della morte confortato dalla fede: pur continuando a lavorare e dettando alla nipote Anna scritti brevi, per Il Corriere della Sera con il titolo di “Schegge”.
Nessun dolore gli fu risparmiato, né la morte precoce della figlia Gioconda né la perdita della parola e della vista. All’alba dell’8 luglio del 1956, Papini morì nella sua casa di Firenze. Usciranno postumi Il Giudizio Universale (1957) e Rapporto sugli uomini (1977). Ovverosia, anche dopo morto proseguiva l’instancabile tentativo di raccontare, capire, spiegare il misterioso rapporto d’amore e conforto, di misericordia e giudizio, di lotta e perdono che è la sostanza della relazione tra Dio e l’uomo, sin dalla notte dei tempi.
Su questa evidenza il cattolico Papini non ebbe mai dubbi, non ammise compromessi.
«Confesso d’aver letto ciascuno dei 30 volumi di Papini almeno tre volte. Continuo ad amare tutto quanto Papini, cosi com’è. Credo che non vi sia miglior elogio che si possa fare a uno scrittore che quello di confessare d’amarlo interamente anche se da lui ci separano le idee, il temperamento e i principi religiosi o morali. Dietro quei 30 volumi c’è un uomo maledettamente vivo e integro. Le migliaia di libri che ha letto non l’hanno cambiato. Le idee che ha promosso e abbandonato una dopo l’altra non l’hanno inaridito. La vastità della sua opera non è riuscita a bloccarlo, a paralizzarlo, a consegnarlo completamente alla storia morta. Nessuno nel nostro secolo ha affrontato tante esperienze e lottato su tanti fronti. Papini si immedesimava in tutto in quello che faceva al momento.
Amava e odiava con passione, con ogni fibra del suo corpo, a riprova di una vitalità e di uno spessore spirituale rari. Oggi che un’intera classe di uomini pratica il compromesso per paura di esporsi, l’esempio di Papini può ridiventare attuale. È un uomo che non si vergogna dei suoi errori. Un vero segno del genio. Solo gli sterili e i mediocri si preoccupano della perfetta coerenza dei propri pensieri, e sono ossessionati dalla paura di sbagliare. Papini ha sbagliato, si è furiosamente contraddetto e compromesso. Eppure della sua opera è rimasto più di ogni “opera” perfettamente delineata, messa a punto e corretta dalla prima all’ultima pagina».
(Mircea Eliade, L’isola di Euthanasius. Scritti letterari, Bollati Boringhieri, 2000).
IL TIMONE N. 74 – ANNO X – Giugno 2008 – pag. 48-49