La “tumba habitada” (= la tomba abitata) fu la metafora con cui il pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) espresse la propria paradossale visione della storia: era conscio che «quel che dice il reazionario non interessa mai a nessuno. Né quando lo dice, perché pare assurdo; né dopo alcuni anni, perché pare ovvio» e dunque accettava un destino da sepolto vivo dentro una società imbevuta di menzogna. La sua azione filosofica, però, fu analoga a quella del seme che, nella tomba della terra, va incontro alla morte e alla perdita della forma per generare una vita più grande: oggi, infatti, Gómez Dávila sta tra i pochi autori del pensiero mondiale novecentesco ai quali rivolgersi se si opera con intelletto e amore; in quello sparuto drappello egli è in compagnia dell’italiano Rodolfo Quadrelli (1939-1984), il quale però raggiunge una più sublime eccellenza (e difatti non è pubblicato da Adelphi).
L’opera scritta di Gómez Dávila è scrigno di tesori dotato di carica negativa, e per essere fruibile deve subire l’azione di rettificazione: i suoi pensieri, scritti nella più adamantina solitudine morale di uno scrittoio di biblioteca, tra il 1950 e gli anni Ottanta, attendono sempre e comunque qualcuno (un testimone?) che ne incarni un aspetto e lo vivifichi. Essendo filosofia pratica, resterebbero altrimenti lettera morta. Come i disegni preparatori di un grande affresco, hanno bisogno assoluto di colore e tinta. Ciò non ostante, siamo al cospetto di un grande autore, liquidatore delle banalità del Novecento: è noto il fatto che nella sua raccolta di 30.000 libri, non ce ne fosse nemmeno uno del suo connazionale premio-nobel Gabriel Garcia Marquez, il quale a sua volta disse: «se non fossi comunista la penserei del tutto come lui».
Ma l’amore per il vero è sempre superiore allo snobismo, perché «la più semplice delle verità è così complessa che nessuna formula la esprime, e per esprimersi ha bisogno del contesto globale di una persona e di una vita». Così, questo suo ritornare sempre, con riverenza, al mistero della persona e dell’infinito lo rende un ideale maestro per chi oggi resiste all’assalto della menzogna; è probabile che quando scrisse la potentissima massima «l’umanità è l’unico dio completamente falso», Gómez Dávila non avesse sulle labbra il ghigno soddisfatto degli gnostici, quanto piuttosto il cuore pensoso del cristiano.
La cultura del “certosino dell’altipiano”
Trascorsa la giovinezza a studiare in Europa, Gómez Dávila visse da benestante per sessant’anni a Santa Fe de Bogotá, a 2.630 metri d’altitudine, nella propria casa, «ubicata in un’affollata via, in mezzo al traffico e al rumore della strada, come un monumento preistorico che la routine sembra condannare alla dimenticanza, nonostante la sua isolata bellezza»: la sua attività era la lettura continua e ponderata. Cella monastica fu la biblioteca, di oltre trentamila volumi, tutti in lingua originale poiché rifiutava le traduzioni e parlava spagnolo, francese e inglese, e leggeva il greco, il latino, il tedesco, il portoghese, l’italiano e un po’ il russo. Pur non amando le grandi riunioni, la sua casa era sempre aperta a tutti: «in primo luogo ai figli, non soltanto per fare i compiti, ma per giocare, chiacchierare e scherzare, purché non si litighi; ed anche agli amici, con i quali amava intrattenersi in piacevoli conversazioni sui temi più diversi, accompagnate da una tazza di caffè» (così riferisce Giovanni Cantoni). Riservato, semplice, gentile, amabile con humour, fu molto vicino alla famiglia e agli amici, disponibile ad ascoltare: il gusto per la solitudine fu una scelta di vita; e per ragioni di principio, non accettò mai le cariche pubbliche che gli furono offerte. In lui s’incarnava il perfetto reazionario a qualunque ideale umano di attivista o di intellettuale impegnato: dovette rivelare infine che la «cultura è tutto ciò che l’università non può insegnare».
Gómez Dávila ha costituito un archetipo. Una rupe ferma, un signor nessuno, un perfetto sconosciuto, un sapiente nascosto: il modello unico (ma replicabile da altri, in contesti diversi) per chi voglia opporsi alla mediocrità diabolica sempre latente, come tentazione satanica, nel corso della storia umana. Né filosofo di professione, né insegnante, né letterato autorevole: indisponibile a qualunque rapporto di forza o gioco di potere o battaglia ideologica, alla fine confessava che se «il giornalista sceglie i propri argomenti, lo scrittore ne è scelto». Non dobbiamo però immaginarcelo immerso nei profumi edonistici dei salotti e delle letture corroboranti: a differenza degli esteti da quattro soldi, Gómez Dávila sapeva che «il peso di questo mondo si può sopportare solo in ginocchio». In altri termini, era cattolico.
Il nemico giurato delle “modernità”
Tra le molte sfaccettature con cui leggere l’opera di Gómez Dávila, appare centrale quella del disprezzo verso la modernità, «che risolve i suoi problemi con soluzioni ancora peggiori dei problemi», per prendere atto che «il mondo moderno non sarà punito: è esso stesso la punizione». Autodefinendosi un pagano che credeva in Cristo, confessando che il cattolicesimo era la sua patria, accettò di essere scrittore perché scrivere era per lui «l’unico modo di tenere le distanze dal secolo in cui ci è toccato di nascere». Scelse come forma di scrittura l’aforisma «per concludere prima di annoiare», poiché la letteratura sta morendo non di anoressia ma di bulimia, quando tutti scrivono, e troppo: ragion per cui oggi «i Vangeli e il Manifesto del partito comunista scoloriscono, il futuro del mondo appartiene alla Coca-Cola e alla pornografia ». Ebbe una certa limitata notorietà soltanto quando era ormai vecchio: gravò sulla sua opera un imbarazzato e ostile silenzio a causa della sua opera principale, pubblicata in più volumi, col titolo di Escolios a un texto implicito (1977- 1986-1992) e che ha la forma di un colossale commento (glossa a margine) di un testo che non viene mai reso esplicito.
Del resto, nelle pagine di questo colombiano sornione, la parte distruttiva del pensare e quella poietica del ricostruire viaggiano quasi sempre di pari passo, e stupendamente (come già detto sopra, meglio di lui seppe fare soltanto Quadrelli, del quale ricorrono in questi giorni i trent’anni dalla prematura scomparsa). Come esempio lampante si veda un aforisma come il seguente: «la scienza inganna in tre modi: trasformando le sue proposizioni in norme, divulgando i suoi risultati più che i suoi metodi, tacendo le sue limitazioni epistemologiche »; oppure quello che recita: «la religione non è nata dall’esigenza di assicurare solidarietà, come le cattedrali non sono state edificate per incentivare il turismo». Pensieri nei quali il tratto graffiante si lega a una invisibile malinconia che attende di venire rivelata da una gioia celeste e terrena insieme.
Come il suo grande predecessore spagnolo Juan Donoso Cortes (1809-1853), anche Gómez Dávila sapeva che il grande nemico della fede e di un’umanità piena è la mentalità progressista, scientista e liberale: cioè l’esito di una violenza alle naturali aspirazioni di ogni uomo verso il bene. Per questo, per lui la definizione illuministica di “reazionario” assume un sapore buono, gustoso: perché «in ogni reazionario, Platone resuscita». Si tenga infine presente che nella sua biblioteca si è trovata tutta la Patrologia greca e latina del Migne, e che è sua la seguente affermazione: «Il paganesimo è l’altro Antico Testamento della Chiesa».
IL TIMONE – Aprile 2014 (pag. 48-49)
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