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21.12.2024

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Nicolà s Gàmez Dà vila
31 Gennaio 2014

Nicolà s Gàmez Dà vila

 

 

 

 

Per qualche tempo ho tenuto, su un mensile, una rubrica: «I miei libri». «Miei» non nel senso di averli scritti, bensì di averli letti e riletti, fino a diventare parte della mia vita. Se non avessi interrotto quella rubrica, vi avrei di certo aggiunto una puntata dedicata agli Escolios (note, cioè, scritte ai margini) a un texto implicito di quell’enigmatico out-sider della cultura, ma anche della fede, che fu il colombiano Nicolas Gomez Davila. Enigmatico perchè – ricco, coltissimo, solitario e schivo, sepolto nella biblioteca della sua bella villa della remota Bogotà – non ci ha lasciato che un’enorme quantità di aforismi, tutti folgoranti di intelligenza e profondi di dottrina. Morto nel 1994, cattolico legato alla vecchia Chiesa, uomo di fede sincera ed esplicita, Davila è stato ovviamente ignorato da certa “cultura” clericale, tanto che la sua opera fu portata tra noi non da un editore confessionale ma dalla laica Adelphi. Lo si può capire: il mondo postconciliare non poteva tollerare un credente che scriveva sentenze come questa: «La religione non è nata dall’esigenza di favorire impegno sociale, così come le cattedrali non sono state edificate per incentivare il turismo». Oppure: «Non avendo ottenuto che gli uomini pratichino quello che insegna la Chiesa, tanti suoi uomini si sono rassegnati a insegnare quello che gli uomini praticano». Peggio ancora: «Pensando di aprire le braccia al mondo moderno, la Chiesa sembra aver finito per aprirgli le gambe». C’è, poi, un’osservazione che mi sembra particolarmente acuta, che taglia corto con tante aggressioni di laici ed agnostici che preoccupano i credenti ma che sono, in realtà, irrilevanti: «Ciò che si pensa contro la Chiesa è privo di interesse, se non lo si pensa da dentro la Chiesa». Per continuare con qualcuno degli straordinari aforismi, eccone uno in qualche modo legato al precedente: «Il miscredente si stupisce che i suoi argomenti non allarmino il cattolico, dimenticando che il cattolico è un miscredente sconfitto. Le obiezioni del miscredente sono i fondamenti della nostra fede». Fondamenti su cui ritorna: «Il fallimento del cristianesimo è uno dei capisaldi della dottrina cristiana». Sempre a proposito di fede: credere nel Dio di Cristo, e nel modo più tradizionale, significa «comprendere che l’uomo è un problema senza soluzione umana». Ancora: «Credo ut intelligam. Traduco sant’Anselmo cosi: credo per diventare intelligente». In effetti, «Dio non chiede la sottomissione dell’intelligenza, bensì una sottomissione intelligente».
Non dimenticando mai, peraltro, che «ciò che è importante non lo si dimostra: lo si testimonia».
Per finire, almeno per questa volta, con questi escolios che meriterebbero ben altro scialo di citazioni, eccone una che non dobbiamo dimenticare perché particolarmente attuale: «La tentazione del paganesimo non è l’immoralità ma la moralità. L’etica è stata inventata da pagani miscredenti». Mi pare di avere già ricordato, in certe cose che scrissi, che c’è una legge implacabile: alla diminuzione della fede corrisponde sempre un aumento dell’interesse per la morale. Lo abbiamo ben visto in questi decenni: i molti, a cominciare dai preti, che lasciavano la Chiesa (o ne teorizzavano una “diversa”) erano ossessionati dall’etica, sia quella personale che quella sociale. Dall’annuncio della fede ai ritornelli su una morale che diventava assai presto moralismo soffocante. E non è forse moralista, in modo intollerabile, la vulgata oggi egemone nel mondo, la political correctness? In ogni caso, può aiutarci un altro degli avvertimenti di questo colombiano: «L’uomo intelligente è quello che mantiene la sua intelligenza a una temperatura indipendente dalla temperatura della società in cui vive».

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Intellettuale sfortunata
Per la ragione riportata sopra da Gomez Davila, ragione che condivido, non leggo quasi mai – o scorro solo velocemente, per dovere – le articolesse degli “intellettuali laici” su temi religiosi, in particolare cristiani e, in modo ancor più particolare, cattolici. Così, non ho perso tempo con le “Ienzuolate”, su La Stampa, di Barbara Spinelli con un’inchiesta, addirittura a puntate, sulla Chiesa di oggi. Ma sul quotidiano torinese ho addirittura imparato a leggere, visto che era il solo che entrasse in casa, e poi ci ho lavorato una decina d’anni, e, dunque, ogni mattina lo compro e, almeno, lo sfoglio. Dunque, qualcosa della fatica di quella femme savante mi è capitata sottocchio. Tra le cose che ho intravisto, ecco il fulcro attorno al quale la Spinelli voleva far girare la sua «fine analisi» (così la definiva il giornale): e, cioè, il fatto che Benedetto XVI sarebbe un uomo pessimista, angosciato, disperato, privo di ogni speranza.
Una vera sfortuna: il numero de La Stampa che ospitava quella interpretazione era lo stesso in cui due pagine erano dedicate alla seconda enciclica del Papa: Spe salvi. Il documento, cioè, in cui quel povero Papa disperato diceva la sua radicale fiducia ed esortava tutti a sperare come anch’egli fa, ispirato dalla fede. Un infortunio. Ma sono certo che questo non cambierà lo schema mentale della Spinelli: se desse retta ai fatti, che razza di intellettuale sarebbe?

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Confusione di termini
Sfortunati anche quegli apostoli del solito politicamente corretto che, considerando offensivo il termine “zingaro”, hanno imposto di dire “rom”. Sfortunati, perchè tra rom e romeno non c’è alcuna comunanza etimologica: il primo significa “uomo”, mentre il secondo rinvia alla antica Dacia colonizzata dai Romani. Parole assai diverse, dunque, ma – a causa del suono – assai vicine. Da qui, la confusione, a livello di opinione pubblica, tra rom e romeni e la convinzione che i crimini commessi dai nomadi siano attribuibili ai romeni in quanto tali. Dunque, l’avversione xenofoba che i “corretti” contavano di c8trastare manipolando, come al solito, le parole, si è in realtà allargata a un’intera nazione. E da Bucarest devono affannarsi a precisare, ma con poco frutto, che rom non è l’abbreviazione di romeno. Ma, pure qui, il fariseismo “progressista” farà finta di nulla e continuerà con le sue parole taroccate.

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Eco-bufala
Per allungare la lista infinità delle ecobufale, dove il cinismo propagandistico dei verdi ha buon gioco con la credulità dei media e, in genere, della gente. Una delle ossessioni attuali è quella dell’auto ad idrogeno che non inquinerebbe e per la quale l’attuale ministro “ambientalista” vuole sfilarci dalla tasche miliardi di euro per studi, ricerche, aiuti alla produzione, distributori appositi. Ecologicamente corretto, dunque edificante, commovente per chi abbia “sensibilità ambientale”. Purtroppo, però, un chimico mi spiegava, scuotendo il capo, l’assurdità del caso: l’idrogeno “libero”, puro, in natura non esiste. Bisogna ricavarlo con procedimenti complessi, per i quali occorre impiegare una quantità di energia superiore a quella fornita dall’idrogeno così “distillato”. Dunque, grandi spese, grandi lavori, grande inquinamento per ottenere una quantità minore di energia. Ogni “pieno” di idrogeno al distributore è il frutto di un’operazione in perdita: diminuzione della forza motrice e maggior inquinamento (“a monte”, in fase di produzione) rispetto all’uso di benzina e gasolio. Viene fatalmente in mente il solito Chesterton: l’uomo che crede di non credere a niente crede in realtà a tutto e a tutti. Persino alle “verità scientifiche” del partiti no dei verdi.

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Natale, mezza festa?
La regione Lombardia ha varato un nuovo piano commerciale, basato sulla liberalizzazione degli orari degli esercizi. Alla domenica, buona parte dei negozi potrà restare aperta. Viene subito in mente quella “Lega per la difesa della domenica” che fu presieduta da don Bosco (suo vice, il beato Francesco Faà di Bruno) che voleva tutelare, almeno un giorno su sette, la libertà dei lavoratori, oltre al tempo da dedicare al culto. Ma lasciamo pur stare, veniamo alla ciliegina su questa legge voluta dall’amministrazione presieduta da Roberto Formigoni che pure è un laico consacrato, membro di un istituto secolare. Porte aperte, da ora, praticamente sempre, tranne in pochi giorni dei quali, evidentemente, occorre salvaguardare la “sacralità”. Dunque, tutto chiuso il primo maggio, in omaggio alla retorica del socialismo ottocentesco e, poi, alla propaganda comunista. Naturalmente, chiusissimo il 25 aprile, in omaggio alla mitica Resistenza. Chiuso anche il primo gennaio, per tutelare la libertà della baldoria di san Silvestro, nonché il 15 agosto: non per l’Assunta, s’intende, ma per motivi turistici. E Natale? Beh, quella evidentemente è una mezza festa, un’occasione minore rispetto alle bandiere rosse del primo maggio e ai vegliardi del 25 aprile che da oltre sessant’anni sfilano per ricordare, quando va bene, qualche mese in montagna, Dunque, il 25 dicembre, i negozi lombardi dovranno stare chiusi: ma solo al pomeriggio. AI mattino, libertà di apertura. È così, non è vero?, che si tutelano le “radici cristiane”.

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Via la croce
A proposito di quelle “radici”. La Croce Rossa, come si sa, è ora un Rombo o una Losanga rossi, visto che non bastava chiamarla “Mezzaluna Rossa” tra i musulmani e “Stella di David rossa” tra gli israeliani. Bisognava rispettare anche i Paesi già cristiani, dove la delicata sensibilità di qualcuno poteva essere offesa da quella croce. Dunque, via il simbolo cristiano e sotto con il simbolo – ovviamente ben noto alla iconografia massonica – del rombo.
In realtà, la croce del vessillo umanitario non era un segno di appartenenza cristiana, provenendo dalla bandiera svizzera a colori invertiti. Ma adesso si è risvegliata anche l’ossessione elvetica per il “rispetto di tutti”. Così, dall’inizio dell’anno prossimo, sparirà la croce che appariva, da sempre, sulle maglie della nazionale svizzera di calcio. Così ha deciso la federazione pallonara: non importa la storia, non importa la tradizione, dicono quegli elvetici, abbiamo già il peso di una croce sulla bandiera, togliamola almeno dalla divisa dei nostri eroi in mutande.

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Pochi ma buoni? No, grazie…
Vidi per la prima volta Enzo Bianchi, il fondatore della comunità monastica ecumenica di Bose, nei lontani anni universitari torinesi, quando egli era già un cattolico impegnato e io non lo ero affatto. AI contrario. Bianchi – e sarà sorprendente per alcuni – frequentava allora la facoltà di economia e commercio e si laureò brillantemente in quelle discipline. Credo perché, allora, gli studi umanistici erano preclusi a chi non provenisse dal liceo classico. Per noi di Scienze Politiche erano previsti due esami di lingue moderne, esami che si sostenevano “in trasferta”, con i docenti a scienze economiche. Mi capitò, dunque, di pendolare tra le due facoltà e di incontrare il futuro priore di Bose.
Su La croix, il quotidiano dei cattolici francesi, vedo ora una lunga, interessante intervista a fratel Bianchi (in omaggio all’antico monachesimo, movimento laicale, non ha mai voluto l’ordinazione sacerdotale) che si apre con il suo compiacimento per la fine della “cristianità”, il cristianesimo di massa. Ora, osserva, essere credenti è una scelta, non si può più esserlo “senza un cammino di fede personale», perché «non esiste più la coincidenza tra la religione e la società», dunque – fortunatamente – i cristiani sono una minoranza, necessariamente convinta.
Comprendo la prospettiva di Bianchi e c’è, in essa, qualcosa che in qualche modo io stesso condivido.
Entrato nella Chiesa proprio mentre la chrétienté, la cristianità, cominciava a dissolversi, non ho pianto, né piango, per questo. Però, mi sorveglio e mi rendo conto del rischio. Tra i motti cristiani può esserci davvero anche il «pochi ma buoni»? La Catholica ha sempre valorizzato l’immagine evangelica della Chiesa come grande rete che pesca ogni genere di pesci, il cui vaglio farà il Signore stesso, senza delegarlo a noi. La Chiesa si è sempre voluta come casa e patria di moltitudini, dove santi e peccatori, asceti e mediocri, sapienti e ignoranti convivano e dove le porte – per entrare e per uscire – siano spalancate. È lo spirito delle sette, invece, che mira alle minoranze attive, ai gruppetti motivati, ai controlli agli ingressi, alle conventicole, alle cittadelle per accedere alle quali occorrono prove, visti, magari studi specifici.
Dunque, consapevole che qui c’è un problema, sempre più ci sto attento a quel «pochi ma buoni» che pur sembra suggestivo e logico.
Ma, come sappiamo, spesso la logica evangelica ha poco a che fare con la nostra.

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Futuro con sorpresa
In un incontro recente con il cardinal Camillo Ruini, sono stato colpito da una sua osservazione. Mi diceva, in effetti, questo mio illustre compaesano: «Sul futuro del mondo, il credente è quello che sa di saperne meno. Infatti, non dimentica che il futuro è aperto a due libertà: quella di Dio e quella che proprio quel Dio ha voluto lasciare agli uomini. Dunque, l’avvenire è del tutto aperto all’imprevisto della libertà». Non può esserci, per il cristiano, il determinismo degli ideologi, alla Marx per intenderei, secondo i quali la storia è soggetta a “leggi” che permettono di prevederne il corso. Dobbiamo restare aperti a ogni sorpresa.

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Don Milani
Don Lorenzo Milani, lo confesso, è per me un enigma: profeta o demagogo, seppure in buonissima fede? Progressista o reazionario? Sapiente cui ispirarsi o ingenuo pasticcione? La ricchezza di quell’uomo lo rende sfaccettato e complesso, dunque non so decidermi.
Non ho dubbi, invece, sulla faziosità di molti clericali, per i quali don Milani avrebbe avuto vita difficile sotto quell’oscurantista di papa Pacelli e avrebbe avuto invece ben migliore accoglienza nella Chiesa le cui porte e finestre sarebbero state spalancate da papa Roncalli. Ah, se non ci fosse stato il rinnovamento giovanneo, quanti guai per il povero don Milani!
Gli slogan degli ideologi non sanno che farsene, è noto, dei fatti autentici: ciò che conta è il mito, previamente stabilito. I fatti, comunque, dicono questo: le celebri, polemiche Esperienze pastorali del sacerdote toscano di origine ebraica appaiono all’inizio del 1958, quando Pio XII è vivo. E lo è ancora quando il libro è duramente stroncato dalla Civiltà Cattolica. L’articolo è letto dall’allora Patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, che scrive al confratello vescovo di Bergamo, Giuseppe Piazzi: «L’autore di questo volume deve essere un pazzerello, scappato dal manicomio. Guai se si incontra un confratello della sua specie. Ho sfogliato quelle pagine: cose incredibili!».
Il 9 ottobre di quello stesso 1958 Pio XII muore, Roncalli gli succede il 28.
Un mese e mezzo dopo, il Sant’Offizio, come ancora si chiamava, per disposizione di Giovanni XXIII ordina il ritiro dal commercio di Esperienze pastorali e l’autore, don Lorenzo Milani, è severamente ammonito.

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Islam a rischio
Mi è capitato di recente, aspettando il figlio di un amico, di sostare davanti a una scuola dove gli immigrati formalmente “islamici” sono numerosi. Tutte le ragazzine – musulmane comprese – sono uscite con i jeans a vita bassa, con in vista l’ombelico e una porzione abbondante di ventre. Seguendo un poco i restauri dell’abbazia dove ho uno studio, ho frequentato i muratori. A mezzogiorno, tutti fermi, a spartirsi le vivande portate da casa e a fare circolare il bottiglione di vino del quale si riempivano bicchieri anche quelli giunti da Paesi “musulmani”. In pizzeria, ecco i gruppi di giovani chiaramente magrebini: sto attento alle loro scelte, constato che sono molti quelli che la pizza la vogliono al prosciutto. O al salame piccante o al wurstel.
Il riserbo geloso del corpo delle donne, l’alcol, il maiale. L’lslam è un legalismo che si basa anche, se non soprattutto, sui tabù, i divieti, i precetti, le tradizioni. Mi confermo in una sospetto: non occorreranno nuove Poitiers o Lepanto per fermare le verdi bandiere del profeta.
Basteranno le mode, gli usi, i menu dell’Occidente.

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Idee
Trovo in Jean Guitton: «Non mi interessa avere delle opinioni. Tutti ne hanno. Un’opinione è alla portata di tutti. Avere delle idee: ecco quel che è difficile e, dunque, raro».

IL TIMONE N. 69 – ANNO X – Gennaio 2008 – pag. 64-66

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