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22.12.2024

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Newman: le ragioni di una conversione
31 Gennaio 2014

Newman: le ragioni di una conversione

 

 

 

I motivi che hanno spinto un famoso anglicano ad abbracciare la fede cattolica.
Perché solo nella Chiesa di Roma si trovano cattolicità, successione a postolica, libertà dal potere della politica, perdono per la salvezza e un rapporto vivo e concreto con Cristo.

«La religione non deve essere un punto morto, il cristianesimo non deve morire. Dove si va altrimenti?». John Henry Newman, una delle più grandi figure del cattolicesimo europeo dell'Ottocento, faceva dire queste parole a un personaggio del suo romanzo Perdita e guadagno, pubblicato nel 1848, forse perché esse riassumevano le ragioni che egli stesso, alcuni anni prima, aveva seguito per abbandonare la Comunione anglicana ed entrare nella Chiesa cattolica.
Nato a Londra nel 1801, Newman si era formato ad Oxford, «la città sacra dell'anglicanesimo>>, secondo l'efficace espressione di Christopher Dawson, un altro anglicano convertito al cattolicesimo nel 1914. Qui, nelle vesti di parroco della Chiesa universitaria di St. Mary e di professore universitario, nel 1833 aveva aderito (diventandone ben presto il leader) al Movimento di Oxford, importante iniziativa di carattere teologico finalizzata ad un rinnovamento della "Chiesa" anglicana, che la rendesse più libera dall'invadenza dello Stato, che allora voleva piegarla, attraverso l'azione legislativa, ad interessi secolari.
Concepiti per difendere l'anglicanesimo, però, gli studi di Newman portarono a un esito imprevisto, perché, grazie ad essi, egli si convinse del carattere scismatico della Comunione anglicana e del fatto che la pienezza dell'ortodossia risiedeva non a Canterbury, ma a Roma.
Da parte sua, il fronte che capitanava il processo legislativo di secolarizzazione era deciso a imporre una resa senza condizioni: innanzitutto a Newman, che nel 1841 constatò come il suo Tract 90 (lo scritto nel quale sosteneva una parziale concordanza del credo anglicano con i dogmi della Chiesa cattolica) venisse ferocemente attaccato proprio da quei vescovi che lo stesso anno non ebbero invece obiezioni nei confronti del «vescovato di Gerusalemme», una sorta di episcopato di una nuova religione evangelica con a capo vescovi nominati a turno dalla Germania e dall'Inghilterra.
L'anglicanesimo, sottomettendosi al progetto di lanciare un grande movimento protestante mondiale, stava quindi dimostrando di essere un punto morto, ma ciò, secondo Newman, non era ancora motivo sufficiente per passare a Roma: infatti, posto che era un dovere per l'uomo cercare di rimanere fedele alla religione di appartenenza, aveva egli il diritto di cambiare confessione religiosa? La risposta fu che questo diritto non esisteva, salvo il caso in cui la posta in gioco fosse stata il vero compimento di se stessi:
"Posso salvarmi nella Chiesa inglese? Sarei salvo, se dovessi morire stanotte? Sarebbe un peccato mortale in me, non abbracciare un'altra comunione?», avrebbe scritto nell'Apologia pro vita sua (1864), esprimendo i sentimenti che lo avevano portato alla conversione avvenuta a Littlemore (vicino Oxford) il 9 ottobre 1845.
Entrato nella Congregazione degli Oratoriani di San Filippo Neri e nominato da papa Pio IX primo superiore dell'Oratorio inglese, Newman, nella seconda parte della sua vita, cercò di dar vita a un movimento culturale per cattolicizzare l'Inghilterra, in quanto profondamente convinto che il cattolicesimo, oltre ad essere l'unica confessione cristiana nella quale risiedevano pienamente i caratteri dell'ortodossia (cattolicità e apostolicità), era il solo in grado di rispondere fino in fondo alla domanda di senso propria dell'uomo.
Ad una ragione sempre alla ricerca di segni nella realtà, in quanto (come egli spiegava nei Sermoni universitari del 1843 e nella Grammatica dell'assenso del 1870) ragione incarnata nella concretezza del soggetto umano e strutturalmente aperta alla conoscenza per testimonianza (fede), già il cristianesimo come tale (cioè a prescindere dalle sue diverse forme) diceva che il mondo visibile era segno del mondo invisibile (perché Dio si era fatto uomo) e offriva così una risposta quanto mai in sintonia con la modalità umana di conoscere e di vivere. Ma questa logica simbolica (chiamata da Newman principio sacramentale) trovava, secondo lui, piena realizzazione soltanto nel cattolicesimo, perché soltanto nella dottrina della Chiesa di Roma il rapporto tra il mondo e Dio veniva considerato in tutti i suoi fattori e quindi senza i riduzionismi introdotti dalla Riforma e in parte condivisi anche dalla Comunione anglicana.
Innanzitutto era il suo non essere sottomesso allo Stato (l'avere cioè un capo visibile nel Papa) e il godere quindi di un'intrinseca libertà sconosciuta all'anglicanesimo (che invece riconosceva il suo capo nel re d'Inghilterra) a fare del cattolicesimo un importante strumento per la salvaguardia della persona dallo strapotere della politica. Solo nel cattolicesimo, inoltre, risiedevano gli strumenti adeguati per il pieno sviluppo delle dimensioni spirituali della persona: ad esempio, solo la Chiesa cattolica, riconoscendo (a differenza delle "Chiese" nate dalla Riforma) che la fede non bastava per agire conformemente ad essa, parlava dell'utilità del perdono per la salvezza. Al pessimismo antropologico che l'anglicanesimo aveva ereditato dal luteranesimo e dal calvinismo, secondo cui l'uomo poteva compiere buone opere solo in conseguenza di una fede già acquisita e sufficiente per la propria salvezza (a cui si collegava un cieco ottimismo moralistico consistente nel ritenere che chi aveva la fede non aveva bisogno del perdono per essere salvato), il cattolicesimo contrapponeva un sano realismo, fondato ultimamente sul fatto che Cristo non era un'idea, ma una persona realmente presente nel mistero dell'Eucaristia.
AI panorama religioso anglicano (nel quale l'Eucaristia era stata privata del suo carattere sacramentale per essere trasformata in un servizio di comunione con un'omelia), Newman poté quindi contrapporre ciò che vide durante il passaggio per Milano nel 1846 sulla strada che doveva condurlo a Roma ad essere ordinato sacerdote cattolico: era una grande benedizione, mentre passeggiava per la città, scriveva in una lettera, «poter entrare nelle chiese – sempre aperte con grande generosa gentilezza – piene di sontuosi marmi da ammirare, e reliquiari, immagini, e crocifissi tutti disponibili al passante che volesse farli propri inginocchiandovisi davanti al Santissimo Sacramento presente ovunque»; era meraviglioso «vedere questa divina presenza guardare fuori dalle varie chiese fin quasi nelle strade, così che a S. Lorenzo vedemmo la gente dall'altra parte della strada togliersi il cappello mentre passava».
Ecco allora che il cattolicesimo, mediante i sacramenti, poteva proporre all'uomo la vita della grazia ed il rapporto con Dio non come «il totalmente Altro» di sapore protestante, ma come la voce interiore e reale della ragione: "Sono cattolico perché credo in Dio», si legge nell'Apologia pro vita sua, "e se mi si chiede perché credo in Dio, rispondo che ci credo perché credo in me stesso, perché trovo impossibile credere nella mia esistenza (e di ciò sono assolutamente certo) senza credere anche nell'esistenza di Colui che vive nella mia coscienza come un essere personale, che tutto vede e giudica».

 

 

RICORDA

 

«La conversione […] fu raggiunta da Newman allorché egli capi, meditando sulle origini della fede cristiana, che la Rivelazione si attua e si perpetua nel tempo mediante la Chiesa di Cristo, e che condizione indispensabile di tale attuazione storica è l'esistenza di un magistero autorevole e infallibile collegato all'indefettibilità della Chiesa. In altri termini, è la nozione della Chiesa come sacramentum (segno efficace) della fede, ossia come necessaria mediazione esterna affinché si realizzino le condizioni per l'ascolto della parola di Dio».
(Antonio Livi, La filosofia e la sua storia, Dante Alighieri, 1997, p. 372).

BIBLIOGRAFIA

 

John Henry Newman, Apologia pro vita sua, Jaca Book, 1982.
Josè Morales Marin, John Henry Newman. La vita (1801-1890), Jaca Book, 1998.
Giuseppe Bonvegna, Per una ragione vivente. Cultura, educazione e politica nel pensiero di John Henry Newman, Vita e Pensiero, 2008.

IL TIMONE N. 74 – ANNO X – Giugno 2008 – pag. 50-51

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