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22.12.2024

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L’obiettivo è il Papa
31 Gennaio 2014

L’obiettivo è il Papa

 

L’obiettivo dell’enorme clamore mediatico sollevato dopo la revoca della scomunica ai vescovi ordinati da mons. Lefebvre è danneggiare Benedetto XVI e il suo Magistero. In particolare la sua volontà di dare attuazione ai documenti del Vaticano Il e di ricucire fratture antiche e recenti che hanno ferito l’unità della Chiesa, nuocendo alla sua natura missionaria.

 

Per 27 anni papa Giovanni Paolo Il ha parlato ai popoli di tutto il mondo, letteralmente “portando” a ognuno di essi un messaggio di rinascita cristiana legato al principio che ogni dialogo dei cattolici con altre culture, e con le rispettive istituzioni, presuppone la consapevolezza della propria fede e dell’identità culturale che ne deriva.
Il suo successore Benedetto XVI sta cercando di dare una veste giuridica e organizzativa al messaggio di Giovanni Paolo Il, attraverso provvedimenti che possano rimanere nel tempo. E questo dispiace a molti, fuori e dentro la Chiesa, che male sopportano l’idea di una comunità cattolica consapevole della propria identità e della relativa missione.
Credo che anche la polemica sollevata con un clamore mediatico incredibile e sproporzionato seguita alla revoca della scomunica (21 gennaio 2009) inflitta il 10 luglio 1988 ai vescovi ordinati da mons. Marcel Lefebvre e alle dichiarazioni sull’inesistenza delle camere a gas nei campi di concentramento nazionalsocialisti da parte di uno dei quattro vescovi, mons. Richard Williamson, debbano essere lette all’interno di questo schema. Infatti, nella stessa dinamica con cui si sono svolti i fatti c’è qualcosa che non torna.
Le dichiarazioni di mons. Williamson (che non hanno nulla a che fare con il suo ministero episcopale) sono state rilasciate a una tv svedese il 10 novembre e utilizzate tre mesi dopo, in occasione della revoca della scomunica; senza questo fatto, è facile pensare che sarebbero rimaste inutilizzate negli archivi della stessa tv per chissà quanto tempo. Come ha scritto il Presidente della Cei card. Angelo Bagnasco in occasione della prolusione del Consiglio permanente, le dichiarazioni del vescovo Williamson sono state riprese strumentalmente e «in un momento nel quale non manca purtroppo nei media nazionali qualche voce di critica ideologica e preconcetta» nei confronti del Pontefice.
«Qualche voce» è diventata una vera e propria campagna mediatica rivolta a incrinare l’immagine del Papa, subdola perché non rivolta a lui personalmente (per ora) ma a sue iniziative, ritenute sbagliate, imprudenti, come appunto la revoca della scomunica.
Perché contro il Papa?
Ci si può chiedere perché e chi voglia ostacolare i tentativi che, in diverse direzioni, il Papa sta cercando di mettere in atto per restaurare l’unità della Chiesa. Una chiave di lettura autorevole del suo pontificato in questo senso viene dal segretario di Stato, cardo Tarcisio Bertone, in una conferenza tenuta negli stessi giorni della crisi successiva alla revoca della scomunica.
Il cardinale ricorda anzitutto le parole di Papa Benedetto XVI sul Concilio Vaticano II, che è «uno straordinario evento ecclesiale» purché si rimanga fedeli ai suoi testi e, continua il cardo Bertone riprendendo il Papa, è da interpretarsi come riforma e rinnovamento della Chiesa, non come discontinuità e rottura rispetto al passato. Il segretario di Stato ricorda anche la «incessante tensione» del Papa «verso la riconciliazione all’interno della Chiesa cattolica e l’ecumenismo», anticipata nell’omelia che inaugurava il pontificato e ribadita dalla Lettera del Papa ai cinesi, dal Motu proprio che ha liberalizzato l’uso del Messale del 1962, dalla revoca della scomunica nei riguardi dei vescovi consacrati da mons. Lefebvre, oltre al «sereno e paziente dialogo con esponenti delle Chiese ortodosse e delle altre confessioni e comunità ecclesiali» (L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2009).
Ora, viene da chiedersi perché questo sforzo del Papa non venga sostenuto, ma spesso invece criticato, neppure troppo larvatamente, e comunque non ripreso, incoraggiato, fatto conoscere, anche da molti ambienti cattolici.
Insomma, partita dall’inesistenza delle camere a gas (e la cosa farebbe sorridere se non ci fosse di mezzo il dramma di milioni di assassinati e di un popolo che giustamente vuole continuare a ricordare), la polemica nei giorni successivi alla revoca della scomunica è arrivata dove qualcuno voleva che arrivasse, ossia a mettere in cattiva luce le iniziative del Papa invise a un certo mondo progressista e relativista, nemico di ogni identità.
Un mondo che esiste all’interno della Chiesa ed è collegato con media e intellettuali che provengono da altre culture, e che è in grado di sollevare una campagna mediatica capace di esercitare una pressione spaventosa. Basta avere letto i giornali o ascoltato le televisioni.

Come contro papa Pio XII
Se così fosse, il dialogo e il rapporto con il mondo ebraico c’entrano poco o niente.
Tutti sanno e possono verificare quanto papa Benedetto XVI ha fatto e detto per coltivare questo dialogo, sia con i suoi interventi teologici sia con l’insegnamento da Pontefice, tanto che il rapporto fra Israele e la Nuova Alleanza forse mai nella storia della Chiesa ha avuto tanta attenzione, non soltanto da parte di teologi o di scuole teologiche, ma da parte dello stesso Magistero.
Sembra così ripetersi quanto accaduto a papa Pio XII, osannato fino al 1963 anche da figure significative del mondo ebraico per aver salvato decine di migliaia di ebrei, poi improvvisamente diventato l’oggetto di una odiosa campagna mediatica internazionale che dura tuttora e che vorrebbe impedirne la canonizzazione.
È stato giustamente fatto notare come gli attacchi contro Pio XII avevano poco a che fare con il motivo avanzato (cioè il silenzio di fronte alla persecuzione degli ebrei), anche perché probabilmente fu proprio grazie a questo supposto silenzio (che tale non fu in senso proprio) che il Papa poté salvare così tanti ebrei, soprattutto a Roma, durante l’occupazione nazionalsocialista. Si volle fargli pagare il suo “ostinato” anticomunismo e venne utilizzato allo scopo un tema per il quale era stato indicato come un modello da parte di importanti rappresentanti di Israele.
Così accade oggi. Dichiarazioni vecchie di tre mesi scatenano un putiferio. Si fa di ogni erba un fascio, come per esempio il prof. Carlo Galli sempre su la Repubblica del 29 gennaio, dove con un corto circuito mette insieme i controrivoluzionari, gli intransigenti del XIX secolo, i tradizionalisti di oggi, tutti responsabili di essere ostili alla modernità, addirittura colpevoli di «insensibilità verso la fraternità universale e verso il dovere di testimoniare la verità davanti all’intero consesso umano». Peccato si dimentichi che l’ideologia responsabile delle camere a gas sia uno dei prodotti esemplari della modernità, o meglio di una certa modernità.
C’è qualcosa che non torna dunque in tutto questo clamore, ma il lettore non pensi a improbabili complotti, piuttosto a una ostilità diffusa, dentro e fuori la Chiesa cattolica, che cerca appena possibile di colpirne la credibilità, in particolare attaccando il vicario di Cristo.
La posta in gioco è più alta di quanto l’emotività esasperata dai media ha lasciato intravedere. E l’Olocausto, una grande infamia prodotta da una delle ideologie della modernità, è estraneo a questa vicenda, anche se viene utilizzato. La vera posta in gioco è il Papa con il suo Magistero, che qualcuno, screditandolo anche indirettamente, vuole rendere in influente nella Chiesa e di conseguenza nel mondo. E in particolare mi sembra di poter dire che l’oggetto dell’attacco riguarda l’interpretazione del Concilio Vaticano Il, ripetutamente sostenuta prima dal cardo Ratzinger e poi durante il pontificato. Interpretazione che ricorda come si debba essere fedeli al Concilio espresso dai suoi documenti, che non sono il frutto di «compromessi penosi» voluti dai padri conciliari e avvallati da papa Paolo VI – come vuole l’interpretazione del Concilio come rottura con la Chiesa precedente ancora recentemente ribadita da Giuseppe Ruggieri e Alberto Melloni (Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, 2009, p. 11) – ma neppure un Concilio che non impegnerebbe i fedeli in quanto pastorale, come si sente dire spesso in certi ambienti “tradizionalisti”. Esso è l’ultimo Concilio della storia della Chiesa, espressione del Magistero ordinario e universale, che è infallibile quando tratta di questioni di fede e di morale, come scriveva il cardo Ratzinger: «Questo Magistero ordinario è così la forma normale dell’infallibilità ecclesiastica, e si tenga conto che si tratta di una infallibilità collegiale (e non monarchica)» (Il nuovo popolo di Dio, Queriniana 1992, p. 180) e come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’assistenza divina è inoltre data ai successori degli Apostoli, che insegnano in comunione con il successore di Pietro, e, in modo speciale, al vescovo di Roma, pastore di tutta la Chiesa, quando, pur senza arrivare ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in “maniera definitiva”, propongono, nell’esercizio del Magistero ordinario, un insegnamento che porta ad una migliore intelligenza della Rivelazione in materia di fede e di costumi. A questo insegnamento ordinario i fedeli devono “aderire col religioso ossequio dello spirito” [Conc. Ecum.Vat. II, Lumen gentium, 25] che, pur distinguendosi dall’ossequio della fede, tuttavia ne è il prolungamento» (n. 892).



IL TIMONE N. 81 – ANNO XI – Marzo 2009 – pag. 56 – 57

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