Vescovi e preti uccisi, attentati, rapimenti: i cristiani subiscono una forte pressione, molti fuggono.
Ma la Chiesa non si rassegna alla violenza e cerca di vivere la propria vocazione.
Un esempio è monsignor Louis Sako, vescovo di Kirkuk, che il 31 maggio riceverà il Premio Defensor Fidei.
Cosa ci sta più a cuore nella vicenda Iraq? Salvaguardare la presenza cristiana: anzitutto per una doverosa solidarietà verso i nostri fratelli nella fede fatti oggetto di una brutale persecuzione, dovere che spesso dimentichiamo in nome di discutibili considerazioni politiche "più ampie" (in fondo in Italia anche i cattolici si sono appassionati molto di più intorno al dibattito "Bush ha fatto bene, Bush ha fatto male" oppure "Dobbiamo restare, dobbiamo andarcene").
Ma non è solo questo: c'è anche la convinzione che soltanto una forte presenza cristiana – per quanto ridotta nel numero – possa aiutare l'Iraq nel cammino di pacificazione; soltanto i cattolici – per loro vocazione – sono in grado di costruire ponti tra le diverse fazioni che si combattono e che sembrano disposte a distruggere tutto il Paese pur di non cedere ai rivali (lo scontro sunniti-sciiti è da questo punto di vista esemplare). Non è un caso che terroristi e fazioni violente abbiano messo nel mirino i cristiani. L'uccisione ai primi di aprile di un prete siro-ortodosso, che segue di tre settimane la morte del vescovo caldeo di Mosul, Paulos Faraj Rahho, è il segno di una situazione che definire grave sembra quasi una professione di ottimismo.
Eppure c'è chi dall'interno dell'Iraq continua a tenere viva la fiamma della speranza e a non rassegnarsi alla violenza e alla fine del cristianesimo in terra di Babilonia. Infaticabile in questo senso è monsignor Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, nel nord dell'Iraq, diocesi confinante con quella di Mosul, la città dove lo stesso Sako è stato parroco fino a 5 anni fa e dove aveva lavorato per decenni con mons. Rahho. Attentati, rapimenti, uccisioni: Mosul e Kirkuk costituiscono il fronte principale di questa guerra contro i cristiani, i quali vedono poche alternative alla fuga.
Quando monsignor Sako – che ha 60 anni, parla 12 lingue, ha studiato a Roma e Parigi, vanta lauree e dottorati in patristica e storia islamica – è stato nominato vescovo, in tutto l'Iraq c'erano 800mila cristiani, oggi sono ridotti alla metà: quelli fuggiti sono per lo più profughi in Siria e Giordania, in attesa che si apra una possibilità per raggiungere l'Europa o gli Stati Uniti. E la causa è soprattutto nei gruppi estremisti venuti da fuori, che hanno alimentato anche un fanatismo interno, un fenomeno che – dice monsignor Sako – è estraneo alla tradizione irachena. Non lo dice per puro spirito patriottico: quando monsignor Rahho è morto, al suo funerale e alle messe successive «hanno partecipato tantissimi esponenti politici e religiosi musulmani di primo piano, che hanno usato anche la tv per esprimerei il loro sostegno». Segno anche di un grande lavoro svolto negli anni passati per cercare il dialogo con i musulmani locali, per instaurare un clima di relazioni costruttive. Ma monsignor Sako aveva avvertito già in occasione della sua nomina a vescovo di Kirkuk: «Un Iraq locomotiva democratica dell'area non piace ad Arabia Saudita, Iran, Siria, Egitto e altri vicini» perché «i diritti civili delle minoranze non arabe, la libertà religiosa e la riforma della giustizia metterebbero in discussione il potere su cui si appoggiano tirannie ataviche e collaudati sistemi di repressione». Non è stato ascoltato e in questi anni il demone del fondamentalismo, infiltrato da questi vicini, ha conquistato anche tante menti irachene: «Mosul – ha detto in una recente intervista – è diventata il vivaio di tutti i fondamentalisti islamici, iracheni e stranieri, e il suo controllo è completamente sfuggito all'Iraq». E le bombe piazzate a Kirkuk sono "messaggi politici": «Ci stanno dicendo: voi cristiani da che parte state nel braccio di ferro tra arabi e curdi?».
«Non c'è più né giudeo né greco – diceva San Paolo – ma tutti siamo uno in Cristo Gesù». E monsignor Sako traduce nella condizione irachena: i cristiani non devono schierarsi, «devono chiedere diritti di cittadinanza per tutti, indipendentemente dalla fede religiosa dei singoli», i cristiani «hanno il compito di convincere tutti al dialogo, all'equilibrio, a non chiudersi negli interessi settari». «La nostra forza non sta nei numeri – aveva detto in un'altra occasione – bensì nella cultura, nei valori, nell'apertura, nella fraternità». Per questo il vescovo di Kirkuk è fortemente contrario alla creazione di un'enclave cristiana nella zona di Ninive, 30 km da Mosul, antico centro della Chiesa caldea. È una proposta avanzata da alcuni cristiani della diaspora per garantire la permanenza in Iraq e la sicurezza, ma i cristiani non sono fatti per vivere in una riserva, «sarebbe un suicidio» dice mons. Sako. I cristiani devono essere ovunque, integrarsi com'è sempre stato. Questi progetti politici – avverte – non fanno altro che «incentivare gli attentati e i rapimenti a danno dei cristiani» da parte di chi si vuole impadronire delle loro proprietà e conquistare maggiore influenza politica.
La presenza cristiana in Iraq sarà possibile soltanto senza venir meno alla propria vocazione; per questo monsignor Sako interviene sempre più spesso per richiamare tutti i cristiani – a cominciare dai vescovi – a parlare con una voce sola. È un punto su cui lavorare molto e rapidamente: «Spesso anche i vescovi danno l'impressione di andare ognuno per conto proprio», si era lamentato tempo fa: «La Chiesa irachena deve essere più unita, parlare una sola lingua chiara, attenta e forte, con una pastorale precisa che ancora manca». Dall'unità della Chiesa, la sua forza, passa il futuro non solo dei cristiani ma dell'Iraq intero.
Monsignor Louis Sako sta impegnando la sua vita per tale compito. Ed è per questo motivo che la Fondazione Fides et Ratio ha deciso di assegnare a lui il Premio Defensor Fidei 2008, consistente in una scultura ricordo e un assegno di diecimila euro. Il premio gli verrà consegnato il 31 maggio nel corso della Festa del Timone che si svolgerà – come è ormai tradizione – a Oreno di Vimercate (Mi). È un piccolo gesto, una goccia nel mare delle necessità dei cristiani iracheni, ma è anche un invito rivolto a tutti per sostenere lo sforzo della Chiesa in Iraq.
CALDEI, FIGLI DI SAN TOMMASO
La comunità caldea conta circa un milione e mezzo di fedeli in tutto il mondo. La maggior parte, circa mezzo milione, risiede in Iraq dove si trova il Patriarcato. Di origini apostoliche – si fanno risalire alla predicazione di san Tommaso – la Chiesa caldea si è estesa in tutto il Medio Oriente. Nel V secolo i vescovi aderirono all'eresia nestoriana (condannata dai Concili di Efeso nel 431 , di Calcedonia nel 451 e di Costantinopoli nel 553). Le prime comunità nestoriane si riunirono alla Chiesa di Roma con il Concilio di Firenze (1339-1342) e furono chiamati caldei per la prima volta dal papa Eugenio IV il 6 luglio 1445. Altri ritorni al cattolicesimo si alternarono con abbandoni finché nel XIX secolo ebbe inizio la tradizione del Patriarcato unico dei caldei (Patriarcato di Babilonia con sede a Mosul. Poi spostato a Baghdad). Oggi infatti ci sono eparchie (diocesi) in Egitto, Siria, Iran, Libano, Turchia. Esiste poi la Chiesa caldea della diaspora, nata in seguito all'emigrazione: circa 200mila fedeli sono presenti in Nord America, 15mila in Oceania, 60mila in Europa (a Roma hanno il loro punto d'incontro presso la Chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri).
BIBLIOGRAFIA
Yacoub Joseph, I cristiani d'Iraq, Jaca Book, 2006.
Massimo Introvigne, La nuova guerra mondiale. Scontro di civiltà o guerra civile islamica?, SugarCo, 2005.
IL TIMONE N. 73 – ANNO X – Maggio 2008 – pag. 18-19