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21.12.2024

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“L’industria dell’Olocausto”
31 Gennaio 2014

“L’industria dell’Olocausto”

 

 


 

 

 

 

Articoli e speciali televisivi han­no celebrato i quarant’anni dal­la cosiddetta “guerra dei sei giorni” che, in meno di una set­timana del giugno del 1967, permise a Tsahal, l’esercito di Israele, di occupare vasti territori dell’Egitto, della Siria, della Giordania, del Libano e, soprattutto, di ri­portare gli ebrei ad avere il controllo tota­le di Gerusalemme. Un evento epocale; anzi, più che storico, “metastorico”, visto che il disastro del 70, con la fine del giu­daismo classico, non è certo casuale nel­la prospettiva cristiana.
Quanto successe quarant’anni fa è de­cisivo anche perchè è da quel 1967 che nasce e via via cresce, di anno in anno, il ricordo e l’esecrazione di quella perse­cuzione ebraica da parte dei nazional­socialisti alla quale si è dato un termine che la sacralizzi e la renda del tutto uni­ca: “olocausto”. Altri impiegano la parola ebraica shoah, cioè “catastrofe”, ma pure questa parola è usata in contesti religiosi. C’è (di lui abbiamo già parlato tempo fa), c’è un professor Norman G. Finkelstein, un docente ebreo della City University di New York, un uomo la cui famiglia è sta­ta decimata dall’antisemitismo hitleriano e che pure ha avuto il coraggio di pub­blicare – da noi, presso Rizzoli – L’industria dell’Olocausto, con sottotitolo Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei. Finkelstein documenta che per una ven­tina d’anni dopo la fine della guerra mon­diale, non solo non si parla di Olocausto o di Shoah ma sono anche limitati i riferi­menti dei media internazionali all’antise­mitismo tedesco. Anzi, la comunità ebrai­ca americana – la più ricca e influente del mondo – si era emozionata ben poco alle notizie tragiche che giungevano dall’Eu­ropa e, sgominata la Germania, non si era mobilitata per la causa di Israele nella guerra del 1948 che pure, se perduta dai giudei, avrebbe significato un nuovo mas­sacro. Anzi, gli Stati Uniti, senza proteste interne, misero l’embargo sulle fornitu­re di armi, e le improvvisate truppe giu­daiche poterono rifornirsi solo dalla Ce­coslovacchia, con l’avallo dell’Urss, allo­ra madrina del nuovo Stato. Erano gli an­ni in cui l’icona stessa del “politicamen­te corretto” progressista, la Giulio Einaudi editore, rifiutava di pubblicare Se questo è un uomo, il libro in cui un chimico tori­nese, Primo Levi, raccontava il martirio di Auschwitz. «Storie oramai passate, inte­ressano un pubblico limitato», era stato il verdetto con cui l’editore respingeva il manoscritto.
Un giudizio che oggi sembra incredibile se non assurdo ma che tale, come documenta Finkelstein, non parve prima di quel 1967 dove – dice – «l’operazione sa­cralizzazione dell’Olocausto fu program­mata a tavolino». In effetti, scrive il do­cente americano, non dobbiamo dimen­ticare che la guerra­lampo del 1967 non fu la risposta a un’aggressione, fu essa stessa un’aggressione: una guerra pre­ventiva, cioè, voluta e studiata da Israe­le per allargare il suo territorio e per con­quistare Gerusalemme. Per la prima vol­ta da molti secoli, l’immagine dell’ebreo si rovesciava: non più il povero, inerme perseguitato ma il soldato superarmato, il conquistatore, l’invasore di territori altrui. Cominciava l’era, che non è ancora ter­minata, dell’occupazione delle terre pa­lestinesi, della repressione sanguinosa, dei terribili campi profughi, degli insedia­menti armati di coloni, dell’allontanamen­to dei non ebrei da Gerusalemme, la Cit­tà Santa. Israele, dunque, aveva bisogno di proteggere la sua immagine, di cercare di allontanare da sé le critiche, addirittu­ra l’accusa di comportarsi come una sor­ta di “Quarto Reich”. Scrive Finkelstein: «In questa offensiva ideologica, la crea­zione programmata dell’Olocausto ebbe un ruolo cruciale. Molto semplicemente, rievocare le persecuzioni sul passato ser­viva a respingere le critiche sul presente. Evocare una Shoah era uno stratagemma per delegittimare ogni critica nei confronti degli israeliani». Lo stesso docente ebreo cita un correli­gionario, un rispettato scrittore israeliano, Boas Evron: «L’informazione sulla perse­cuzione diventa un’operazione di propa­ganda, un ribollire di slogan e una visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato ma la manipolazione del presente». Il pre­sente cioè della dura, implacabile politi­ca dello Stato di Israele, dichiarato immu­ne dalle leggi che valgono nella politica, in quanto luogo di rifugio degli scampa­ti al Grande Male. Aggiunge Finkelstein: «Due assiomi centrali stanno a sostegno dell’impalcatura dell’Olocausto: il primo è che esso costituisce un evento stori­co unico e senza paragoni; il secondo è che segna l’apice dell’eterno odio irrazio­nale dei Gentili nei confronti degli Ebrei». In effetti, la ricerca sulle fonti testimonia che «nessuna di queste due affermazio­ni appare in interventi pubblici prima del­la guerra del giugno 1967 né, per quan­to esse siano diventate la pietra angola­re della letteratura sull’Olocausto, figura­no prima di allora negli studi critici sul na­zionalsocialismo». Il fatto è, rincara que­sto autore, che «una sofferenza unica conferisce diritti unici. Il male unico del­la Shoah, secondo Jacob Neusner, non soltanto pone gli ebrei su un piano diver­so rispetto a ogni altro, ma concede loro anche una rivendicazione nei confronti di tutti gli altri». Anzi, come scrive con chia­rezza e sincerità un altro autore ebreo, Edward Alexander, «l’unicità dell’Olocau­sto è per noi un capitale morale e dob­biamo rivendicare la sovranità su questo patrimonio prezioso». Insomma, «grazie a questo alibi, ossessivamente riproposto, una superpotenza militare e atomica co­me Israele è presentata come una nazio­ne di vittime, l’intoccabile rifugio di chi ha su tutto il resto del mondo dei crediti dei quali il mondo deve giustificarsi».

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Si potrebbe continuare ma ci fermia­mo qui, essendo chiara la prospettiva di Finkelstein: naturalmente, nessun altro che avesse una diversa biografia, avrebbe potuto scrivere queste cose non soltanto trovando editori importanti ma sfuggendo all’arresto e alla detenzione. In effetti, co­me si sa, è in azione – su questi temi – una “polizia del pensiero”, una vera e propria nuova inquisizione. In molti Paesi, tra cui l’Italia, vigono leggi che tutelano a suon di condanne penali la versione ufficiale di quanto successo in Europa tra il 1933 e il 1945. A chiunque, singolo o istituzioni, vengono chiesti i documenti per accerta­re se è in regola con quello che Sergio Romano, l’ex­ambasciatore a Washington e Mosca, di solido liberalismo e opinionista del Corriere della Sera, ha chiamato “una sorta di giudeo­centrismo”, in base al quale la storia e le persone sono giudicate nella prospettiva della Shoah. Giudicati e condannati all’infamia se si adeguarono a quel silenzio che, peraltro, come abbiamo visto, coinvolse anche la comunità ebraica americana che poco o nulla fece per de­nunciare la persecuzione.
Quanto a me, “gentile” e non circonciso, metto le mani avanti: semplicemente, relata refero, all’ebreo Finkelstein (che non nega affatto, sia chiaro, l’orrore e la verità dello sterminio di cui la sua stessa fami­glia è stata vittima, ma denuncia lo sfrutta­mento che ne sarebbe fatto), a Finkelstein, dunque, replichino le comunità ebraiche che, in realtà, davanti all’Industria dell’Olocausto – apparso in America nel 2000 – sembrano avere preferito quel silenzio che, nella società dell’apparire, sembra la stroncatura più efficace. A noi, interessa soprattutto, come al soli­to, la prospettiva cattolica. In effetti, la let­tura proposta dal professore di New York può spiegare ciò che sconcerta i molti che si chiedono come mai l’atteggiamen­to ebraico nei confronti della Chiesa cat­tolica si sia improvvisamente ribaltato. Si sa che, subito dopo la guerra, furono in­numerevoli gli attestati di riconoscenza da parte di quegli israeliti che proprio grazie all’aiuto generoso degli uomini e delle isti­tuzioni ecclesiali avevano potuto sfuggire alla deportazione. È noto anche che, al­la morte di Pio XII, nel 1958, sia dalla Dia­spora che da Israele fu un coro pratica­mente unanime di cordoglio riconoscente. E poi, di colpo, ecco che il Pastor angelicus si trasforma nel “Papa di Hitler” o, al­meno, in un politico cinico, un pavido, un ambiguo che tacque quando occorreva in­vece alzare la voce. Un ribaltamento che, dicevo, sorprende e sconcerta. Ma spie­gabile, secondo Finkelstein, da una stra­tegia decisa da coloro che, con la creazio­ne e la difesa dell’Olocausto come nuova religione civile (la sola, in fondo, oggi ob­bligatoria) avevano bisogno di coinvolgere tutti i non ebrei nell’accusa, nel sospetto, nella domanda di risarcimenti. Tutti. Dun­que anche, anzi soprattutto, la Chiesa cat­tolica. E, in un questa operazione, il 1967 dell’offensiva “imperialista” di Israele se­gna un punto di svolta, per il quale non si vedono correzioni possibili, almeno sino a quando quello Stato continuerà nella sua politica. Ma può forse farne una diversa, nelle condizioni in cui la sua presenza ha ridotto l’intero Medio Oriente?

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A ennesima conferma che le ragioni della storia nulla valgono contro quelle della pro­paganda anti­cattolica, ecco qui un picco­lo caso che, in qualche modo, mi riguar­da da vicino. Mi giunge, in questi giorni, una novità Mondadori, Storia del pregiudizio contro gli ebrei. Ne è autore Riccar­do Calimani, autore di molti volumi di sto­ria giudaica: una persona colta e cordiale, della quale posso dirmi amico, essendoci più volte incontrati in occasione di dibattiti televisivi. In questa sua ultima opera, Ca­limani osserva che, al momento dell’uni­tà politica, «la comunità italiana era tra le più assimilate tra quelle europee e gli ebrei italiani non si distinguevano in nulla dai lo­ro compatrioti cattolici», tanto che «l’as­senza di un pregiudizio contro gli ebrei in Italia ha fatto nascere interrogativi in molti storici». A questo punto riconosce, bontà sua: «È probabile che l’argine al razzismo in Italia sia stata la Chiesa cattolica: l’eti­ca cristiana è autenticamente antirazzista e inoltre il mondo cristiano ha sempre ma­nifestato una forte predisposizione a con­vertire coloro che erano al di fuori del suo grembo, ma non a distruggerli. Il razzismo biologico, oltre che estraneo, si oppone­va al suo desiderio di salvare le anime con il battesimo». Quanto a Pio IX, riconosce che «nel 1846 abolì l’umiliante omaggio del primo giorno di carnevale, soppres­se le prediche coatte e nell’aprile del 1846 ordinò che le porte del ghetto fossero de­finitivamente smantellate», anche se poi Garibaldi, Mazzini e soci, con la loro rivo­luzione del 48­49 (cui però, e sempre lo si tace, il giudaismo romano rifiutò di par­tecipare) lo costrinsero a un ripensamen­to. In questo clima di restaurazione, scrive ancora Calimani, sotto quel papa «creb­bero i casi di conversione coatta, alcuni clamorosi come quello del piccolo Edgar­do Mortara, nel 1858». Più avanti ci ritor­na sopra parlando di «straordinaria gravi­tà» di casi come quello del bambino bo­lognese portato a Roma perchè abusiva­mente battezzato dalla domestica, tenuta in casa Mortara contro la legge.
Ora: Calimani conosce bene (ne abbiamo, infatti, parlato tra noi) quanto ho pubblica­to oltre due anni fa, e presso il suo stesso editore, con il titolo Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX. Si tratta del memoriale ine­dito con cui il presunto «convertito coat­to», fattosi religioso con il nome di Pio Ma­ria, esalta con fervore, giunto ai 37 anni, quel Pio IX che per lui fu un padre, lo di­fende dalle accuse di infiniti Calimani e ne profetizza addirittura quella glorificazione che è giunta soltanto nel 2000. Insomma, il mio amico scrittore sa bene quanto il “ca­so Mortasa” sia diverso dalla vulgata cor­rente e sa quanto sia abusivo etichettar­lo sotto gli atti di intolleranza e di violen­za perpetrati dal cattolicesimo. Lo sa bene. Ma, evidentemente, non vuol rinunciare a quella faziosità, che se ne infischia della verità, di cui Pio XII è, attualmente, uno dei bersagli principali. Ma questo vale, lo sappiamo bene, per ogni schema ideolo­gico: se questo è in contrasto con i fatti, tanto peggio per i fatti.

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A proposito di mondo ebraico. Ho con­servato il ritaglio di un giornale francese del 1999, quando in Francia furono ap­provati i cosiddetti Pacs, una versione più radicale dei nostri Dico, che danno di­ritti e riconoscimenti alle coppie di fatto, comprese quelle tra persone dello stesso sesso. Trovo, su quel giornale transalpi­no, la cronaca di una grande manifesta­zione organizzata a Parigi dal Concisto­ro Israelitico francese con un tema che voleva essere polemico contro il governo che aveva approvato quei Pacs: «La fa­miglia. Ma una famiglia sicura». Prenden­do la parola, Joseph Struck, Gran Rabbi­no di Francia, dunque la maggiore auto­rità religiosa per i 600.000 ebrei france­si disse testualmente: «La forza del mes­saggio biblico risiede nel fatto che non è ambigua, che non permette due letture possibili. Ebbene, in questa luce, l’omo­sessualità è un abominio. Non c’è da di­scutere oltre, qui non c’è acrobazia teo­logica che tenga». Non ho notizia di rea­zioni esagitate dei media, come sareb­be certamente successo se parole simili fossero state pronunciate dall’arcivesco­vo di Lione che, come vuole la storia, è tuttora il Primate delle Gallie. Oggi, otto anni dopo quelle dichiarazioni del Gran Rabbino, aggiungo un altro ri­taglio, tratto dal Corriere della Sera. Ne è autore Ernesto Galli della Loggia e mi limito a riprodurlo, non potendo dir me­glio. Ecco, dunque: «A Gerusalemme non si potranno svolgere manifestazio­ni del Gay Pride, né oggi né mai (come del resto non si sono potute svolgere si­nora). Lo ha stabilito il Parlamento israe­liano, peraltro non avendo il coraggio di farlo in modo esplicito. È stata approva­ta in prima lettura, infatti, una legge che conferisce poteri di ordine pubblico al sindaco della città che, essendo però un religioso ortodosso, si sa già che uso ne farà. Naturalmente, adesso ci aspettia­mo da parte di tanti intellettuali e politici di nostra conoscenza appropriate consi­derazioni sul carattere irrimediabilmente sessuofobico e liberticida della religione ebraica, sdegnate denunce dell’arrogan­za clericale degli ambienti religiosi israe­litici che hanno imposto il provvedimen­to. Ci aspettiamo di leggere vibrate pro­teste circa la pavida accondiscendenza della classe politica israeliana nei con­fronti del Rabbinato, eccetera eccetera. Ma qualcosa ci dice che l’attesa resterà delusa». Certe cose, è ben noto, sono ri­servate al cattolicesimo.

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Struck, il Gran Rabbino di Francia, face­va riferimento alla Scrittura che, anche nella sua parte ebraica, condanna sen­za appello ogni rapporto omosessua­le. Dicono di fare riferimento alla Scrit­tura, completa di Nuovo Testamento (es­so pure durissimo in argomento), anche i nostri protestanti autoctoni, i valde­si. I quali gestiscono da decenni il cele­bre centro ecumenico “Agape”, costrui­to e gestito per “annunciare la Parola di Dio”, senza glossa, senza equivoci, nel­la sua purezza. Mica come quei paga­neggianti superstiziosi dei papisti! Ebbe­ne, mi giunge come ogni anno il calenda­rio delle iniziative di “Agape”. Vedo che, nella prima settimana di aprile, erano in programma dei “Cantieri lesbici” per, si dice, «condividere tra donne esperienze concrete, scambiandosi consapevolez­za». Per luglio, invece, sarà il turno de­gli uomini, con una settimana dedicata a «Omosessualità tra stanzialità e nomadi­smo», e anche qui è detto chiaramente che ciò cui si mira è «praticare la convi­venza e la solidarietà» tra maschi, in un clima di “normalità”, uomini e donne es­sendo etichette superate. Sola Scriptura, nevvero, amici valdesi? E fedeltà rispet­tosa per quei maestri nella fede, Lutero, Calvino e tutti gli altri, con le loro espres­sioni così carine su quelli che chiamava­no “sodomiti”, non è così?

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Per restare in tema non ci sono state re­pliche – ma un silenzio imbarazzato per tanti nostri ammiratori di un buddismo immaginario – a quanto dichiarato l’an­no scorso dal Dalai Lama in una intervi­sta all’inglese Daily Telegraph. Ha det­to la “Grande Luce”, spesso e volentie­ri opposto dai media, per la sua saggez­za e tollerante apertura, al presunto in­tegrismo cattolico: «Coppie omosessua­li? Il mio è un no assoluto. Senza sfuma­ture. Una coppia dello stesso sesso mi è venuta a trovare, cercando il mio ap­poggio e la mia benedizione. Ho dovuto spiegare loro i nostri insegnamenti. Una donna mi ha presentato un’altra don­na come sua “moglie”: disconcerting». Che è molto di più, in inglese, del nostro “sconcertante”. È qualcosa che si avvi­cina all’“abominevole” del Gran Rabbi­no di Francia. Curioso, ancora una volta: non c’è stata nessuna denuncia dei co­siddetti progressisti a proposito di «una minaccia buddista sul diritto a vivere la differenza sessuale».

IL TIMONE -­ N.65 – ANNO IX – Luglio/Agosto 2007­ pag. 64-­66

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