Articoli e speciali televisivi hanno celebrato i quarant’anni dalla cosiddetta “guerra dei sei giorni” che, in meno di una settimana del giugno del 1967, permise a Tsahal, l’esercito di Israele, di occupare vasti territori dell’Egitto, della Siria, della Giordania, del Libano e, soprattutto, di riportare gli ebrei ad avere il controllo totale di Gerusalemme. Un evento epocale; anzi, più che storico, “metastorico”, visto che il disastro del 70, con la fine del giudaismo classico, non è certo casuale nella prospettiva cristiana.
Quanto successe quarant’anni fa è decisivo anche perchè è da quel 1967 che nasce e via via cresce, di anno in anno, il ricordo e l’esecrazione di quella persecuzione ebraica da parte dei nazionalsocialisti alla quale si è dato un termine che la sacralizzi e la renda del tutto unica: “olocausto”. Altri impiegano la parola ebraica shoah, cioè “catastrofe”, ma pure questa parola è usata in contesti religiosi. C’è (di lui abbiamo già parlato tempo fa), c’è un professor Norman G. Finkelstein, un docente ebreo della City University di New York, un uomo la cui famiglia è stata decimata dall’antisemitismo hitleriano e che pure ha avuto il coraggio di pubblicare – da noi, presso Rizzoli – L’industria dell’Olocausto, con sottotitolo Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei. Finkelstein documenta che per una ventina d’anni dopo la fine della guerra mondiale, non solo non si parla di Olocausto o di Shoah ma sono anche limitati i riferimenti dei media internazionali all’antisemitismo tedesco. Anzi, la comunità ebraica americana – la più ricca e influente del mondo – si era emozionata ben poco alle notizie tragiche che giungevano dall’Europa e, sgominata la Germania, non si era mobilitata per la causa di Israele nella guerra del 1948 che pure, se perduta dai giudei, avrebbe significato un nuovo massacro. Anzi, gli Stati Uniti, senza proteste interne, misero l’embargo sulle forniture di armi, e le improvvisate truppe giudaiche poterono rifornirsi solo dalla Cecoslovacchia, con l’avallo dell’Urss, allora madrina del nuovo Stato. Erano gli anni in cui l’icona stessa del “politicamente corretto” progressista, la Giulio Einaudi editore, rifiutava di pubblicare Se questo è un uomo, il libro in cui un chimico torinese, Primo Levi, raccontava il martirio di Auschwitz. «Storie oramai passate, interessano un pubblico limitato», era stato il verdetto con cui l’editore respingeva il manoscritto.
Un giudizio che oggi sembra incredibile se non assurdo ma che tale, come documenta Finkelstein, non parve prima di quel 1967 dove – dice – «l’operazione sacralizzazione dell’Olocausto fu programmata a tavolino». In effetti, scrive il docente americano, non dobbiamo dimenticare che la guerralampo del 1967 non fu la risposta a un’aggressione, fu essa stessa un’aggressione: una guerra preventiva, cioè, voluta e studiata da Israele per allargare il suo territorio e per conquistare Gerusalemme. Per la prima volta da molti secoli, l’immagine dell’ebreo si rovesciava: non più il povero, inerme perseguitato ma il soldato superarmato, il conquistatore, l’invasore di territori altrui. Cominciava l’era, che non è ancora terminata, dell’occupazione delle terre palestinesi, della repressione sanguinosa, dei terribili campi profughi, degli insediamenti armati di coloni, dell’allontanamento dei non ebrei da Gerusalemme, la Città Santa. Israele, dunque, aveva bisogno di proteggere la sua immagine, di cercare di allontanare da sé le critiche, addirittura l’accusa di comportarsi come una sorta di “Quarto Reich”. Scrive Finkelstein: «In questa offensiva ideologica, la creazione programmata dell’Olocausto ebbe un ruolo cruciale. Molto semplicemente, rievocare le persecuzioni sul passato serviva a respingere le critiche sul presente. Evocare una Shoah era uno stratagemma per delegittimare ogni critica nei confronti degli israeliani». Lo stesso docente ebreo cita un correligionario, un rispettato scrittore israeliano, Boas Evron: «L’informazione sulla persecuzione diventa un’operazione di propaganda, un ribollire di slogan e una visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato ma la manipolazione del presente». Il presente cioè della dura, implacabile politica dello Stato di Israele, dichiarato immune dalle leggi che valgono nella politica, in quanto luogo di rifugio degli scampati al Grande Male. Aggiunge Finkelstein: «Due assiomi centrali stanno a sostegno dell’impalcatura dell’Olocausto: il primo è che esso costituisce un evento storico unico e senza paragoni; il secondo è che segna l’apice dell’eterno odio irrazionale dei Gentili nei confronti degli Ebrei». In effetti, la ricerca sulle fonti testimonia che «nessuna di queste due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno 1967 né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura sull’Olocausto, figurano prima di allora negli studi critici sul nazionalsocialismo». Il fatto è, rincara questo autore, che «una sofferenza unica conferisce diritti unici. Il male unico della Shoah, secondo Jacob Neusner, non soltanto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto a ogni altro, ma concede loro anche una rivendicazione nei confronti di tutti gli altri». Anzi, come scrive con chiarezza e sincerità un altro autore ebreo, Edward Alexander, «l’unicità dell’Olocausto è per noi un capitale morale e dobbiamo rivendicare la sovranità su questo patrimonio prezioso». Insomma, «grazie a questo alibi, ossessivamente riproposto, una superpotenza militare e atomica come Israele è presentata come una nazione di vittime, l’intoccabile rifugio di chi ha su tutto il resto del mondo dei crediti dei quali il mondo deve giustificarsi».
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Si potrebbe continuare ma ci fermiamo qui, essendo chiara la prospettiva di Finkelstein: naturalmente, nessun altro che avesse una diversa biografia, avrebbe potuto scrivere queste cose non soltanto trovando editori importanti ma sfuggendo all’arresto e alla detenzione. In effetti, come si sa, è in azione – su questi temi – una “polizia del pensiero”, una vera e propria nuova inquisizione. In molti Paesi, tra cui l’Italia, vigono leggi che tutelano a suon di condanne penali la versione ufficiale di quanto successo in Europa tra il 1933 e il 1945. A chiunque, singolo o istituzioni, vengono chiesti i documenti per accertare se è in regola con quello che Sergio Romano, l’exambasciatore a Washington e Mosca, di solido liberalismo e opinionista del Corriere della Sera, ha chiamato “una sorta di giudeocentrismo”, in base al quale la storia e le persone sono giudicate nella prospettiva della Shoah. Giudicati e condannati all’infamia se si adeguarono a quel silenzio che, peraltro, come abbiamo visto, coinvolse anche la comunità ebraica americana che poco o nulla fece per denunciare la persecuzione.
Quanto a me, “gentile” e non circonciso, metto le mani avanti: semplicemente, relata refero, all’ebreo Finkelstein (che non nega affatto, sia chiaro, l’orrore e la verità dello sterminio di cui la sua stessa famiglia è stata vittima, ma denuncia lo sfruttamento che ne sarebbe fatto), a Finkelstein, dunque, replichino le comunità ebraiche che, in realtà, davanti all’Industria dell’Olocausto – apparso in America nel 2000 – sembrano avere preferito quel silenzio che, nella società dell’apparire, sembra la stroncatura più efficace. A noi, interessa soprattutto, come al solito, la prospettiva cattolica. In effetti, la lettura proposta dal professore di New York può spiegare ciò che sconcerta i molti che si chiedono come mai l’atteggiamento ebraico nei confronti della Chiesa cattolica si sia improvvisamente ribaltato. Si sa che, subito dopo la guerra, furono innumerevoli gli attestati di riconoscenza da parte di quegli israeliti che proprio grazie all’aiuto generoso degli uomini e delle istituzioni ecclesiali avevano potuto sfuggire alla deportazione. È noto anche che, alla morte di Pio XII, nel 1958, sia dalla Diaspora che da Israele fu un coro praticamente unanime di cordoglio riconoscente. E poi, di colpo, ecco che il Pastor angelicus si trasforma nel “Papa di Hitler” o, almeno, in un politico cinico, un pavido, un ambiguo che tacque quando occorreva invece alzare la voce. Un ribaltamento che, dicevo, sorprende e sconcerta. Ma spiegabile, secondo Finkelstein, da una strategia decisa da coloro che, con la creazione e la difesa dell’Olocausto come nuova religione civile (la sola, in fondo, oggi obbligatoria) avevano bisogno di coinvolgere tutti i non ebrei nell’accusa, nel sospetto, nella domanda di risarcimenti. Tutti. Dunque anche, anzi soprattutto, la Chiesa cattolica. E, in un questa operazione, il 1967 dell’offensiva “imperialista” di Israele segna un punto di svolta, per il quale non si vedono correzioni possibili, almeno sino a quando quello Stato continuerà nella sua politica. Ma può forse farne una diversa, nelle condizioni in cui la sua presenza ha ridotto l’intero Medio Oriente?
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A ennesima conferma che le ragioni della storia nulla valgono contro quelle della propaganda anticattolica, ecco qui un piccolo caso che, in qualche modo, mi riguarda da vicino. Mi giunge, in questi giorni, una novità Mondadori, Storia del pregiudizio contro gli ebrei. Ne è autore Riccardo Calimani, autore di molti volumi di storia giudaica: una persona colta e cordiale, della quale posso dirmi amico, essendoci più volte incontrati in occasione di dibattiti televisivi. In questa sua ultima opera, Calimani osserva che, al momento dell’unità politica, «la comunità italiana era tra le più assimilate tra quelle europee e gli ebrei italiani non si distinguevano in nulla dai loro compatrioti cattolici», tanto che «l’assenza di un pregiudizio contro gli ebrei in Italia ha fatto nascere interrogativi in molti storici». A questo punto riconosce, bontà sua: «È probabile che l’argine al razzismo in Italia sia stata la Chiesa cattolica: l’etica cristiana è autenticamente antirazzista e inoltre il mondo cristiano ha sempre manifestato una forte predisposizione a convertire coloro che erano al di fuori del suo grembo, ma non a distruggerli. Il razzismo biologico, oltre che estraneo, si opponeva al suo desiderio di salvare le anime con il battesimo». Quanto a Pio IX, riconosce che «nel 1846 abolì l’umiliante omaggio del primo giorno di carnevale, soppresse le prediche coatte e nell’aprile del 1846 ordinò che le porte del ghetto fossero definitivamente smantellate», anche se poi Garibaldi, Mazzini e soci, con la loro rivoluzione del 4849 (cui però, e sempre lo si tace, il giudaismo romano rifiutò di partecipare) lo costrinsero a un ripensamento. In questo clima di restaurazione, scrive ancora Calimani, sotto quel papa «crebbero i casi di conversione coatta, alcuni clamorosi come quello del piccolo Edgardo Mortara, nel 1858». Più avanti ci ritorna sopra parlando di «straordinaria gravità» di casi come quello del bambino bolognese portato a Roma perchè abusivamente battezzato dalla domestica, tenuta in casa Mortara contro la legge.
Ora: Calimani conosce bene (ne abbiamo, infatti, parlato tra noi) quanto ho pubblicato oltre due anni fa, e presso il suo stesso editore, con il titolo Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX. Si tratta del memoriale inedito con cui il presunto «convertito coatto», fattosi religioso con il nome di Pio Maria, esalta con fervore, giunto ai 37 anni, quel Pio IX che per lui fu un padre, lo difende dalle accuse di infiniti Calimani e ne profetizza addirittura quella glorificazione che è giunta soltanto nel 2000. Insomma, il mio amico scrittore sa bene quanto il “caso Mortasa” sia diverso dalla vulgata corrente e sa quanto sia abusivo etichettarlo sotto gli atti di intolleranza e di violenza perpetrati dal cattolicesimo. Lo sa bene. Ma, evidentemente, non vuol rinunciare a quella faziosità, che se ne infischia della verità, di cui Pio XII è, attualmente, uno dei bersagli principali. Ma questo vale, lo sappiamo bene, per ogni schema ideologico: se questo è in contrasto con i fatti, tanto peggio per i fatti.
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A proposito di mondo ebraico. Ho conservato il ritaglio di un giornale francese del 1999, quando in Francia furono approvati i cosiddetti Pacs, una versione più radicale dei nostri Dico, che danno diritti e riconoscimenti alle coppie di fatto, comprese quelle tra persone dello stesso sesso. Trovo, su quel giornale transalpino, la cronaca di una grande manifestazione organizzata a Parigi dal Concistoro Israelitico francese con un tema che voleva essere polemico contro il governo che aveva approvato quei Pacs: «La famiglia. Ma una famiglia sicura». Prendendo la parola, Joseph Struck, Gran Rabbino di Francia, dunque la maggiore autorità religiosa per i 600.000 ebrei francesi disse testualmente: «La forza del messaggio biblico risiede nel fatto che non è ambigua, che non permette due letture possibili. Ebbene, in questa luce, l’omosessualità è un abominio. Non c’è da discutere oltre, qui non c’è acrobazia teologica che tenga». Non ho notizia di reazioni esagitate dei media, come sarebbe certamente successo se parole simili fossero state pronunciate dall’arcivescovo di Lione che, come vuole la storia, è tuttora il Primate delle Gallie. Oggi, otto anni dopo quelle dichiarazioni del Gran Rabbino, aggiungo un altro ritaglio, tratto dal Corriere della Sera. Ne è autore Ernesto Galli della Loggia e mi limito a riprodurlo, non potendo dir meglio. Ecco, dunque: «A Gerusalemme non si potranno svolgere manifestazioni del Gay Pride, né oggi né mai (come del resto non si sono potute svolgere sinora). Lo ha stabilito il Parlamento israeliano, peraltro non avendo il coraggio di farlo in modo esplicito. È stata approvata in prima lettura, infatti, una legge che conferisce poteri di ordine pubblico al sindaco della città che, essendo però un religioso ortodosso, si sa già che uso ne farà. Naturalmente, adesso ci aspettiamo da parte di tanti intellettuali e politici di nostra conoscenza appropriate considerazioni sul carattere irrimediabilmente sessuofobico e liberticida della religione ebraica, sdegnate denunce dell’arroganza clericale degli ambienti religiosi israelitici che hanno imposto il provvedimento. Ci aspettiamo di leggere vibrate proteste circa la pavida accondiscendenza della classe politica israeliana nei confronti del Rabbinato, eccetera eccetera. Ma qualcosa ci dice che l’attesa resterà delusa». Certe cose, è ben noto, sono riservate al cattolicesimo.
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Struck, il Gran Rabbino di Francia, faceva riferimento alla Scrittura che, anche nella sua parte ebraica, condanna senza appello ogni rapporto omosessuale. Dicono di fare riferimento alla Scrittura, completa di Nuovo Testamento (esso pure durissimo in argomento), anche i nostri protestanti autoctoni, i valdesi. I quali gestiscono da decenni il celebre centro ecumenico “Agape”, costruito e gestito per “annunciare la Parola di Dio”, senza glossa, senza equivoci, nella sua purezza. Mica come quei paganeggianti superstiziosi dei papisti! Ebbene, mi giunge come ogni anno il calendario delle iniziative di “Agape”. Vedo che, nella prima settimana di aprile, erano in programma dei “Cantieri lesbici” per, si dice, «condividere tra donne esperienze concrete, scambiandosi consapevolezza». Per luglio, invece, sarà il turno degli uomini, con una settimana dedicata a «Omosessualità tra stanzialità e nomadismo», e anche qui è detto chiaramente che ciò cui si mira è «praticare la convivenza e la solidarietà» tra maschi, in un clima di “normalità”, uomini e donne essendo etichette superate. Sola Scriptura, nevvero, amici valdesi? E fedeltà rispettosa per quei maestri nella fede, Lutero, Calvino e tutti gli altri, con le loro espressioni così carine su quelli che chiamavano “sodomiti”, non è così?
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Per restare in tema non ci sono state repliche – ma un silenzio imbarazzato per tanti nostri ammiratori di un buddismo immaginario – a quanto dichiarato l’anno scorso dal Dalai Lama in una intervista all’inglese Daily Telegraph. Ha detto la “Grande Luce”, spesso e volentieri opposto dai media, per la sua saggezza e tollerante apertura, al presunto integrismo cattolico: «Coppie omosessuali? Il mio è un no assoluto. Senza sfumature. Una coppia dello stesso sesso mi è venuta a trovare, cercando il mio appoggio e la mia benedizione. Ho dovuto spiegare loro i nostri insegnamenti. Una donna mi ha presentato un’altra donna come sua “moglie”: disconcerting». Che è molto di più, in inglese, del nostro “sconcertante”. È qualcosa che si avvicina all’“abominevole” del Gran Rabbino di Francia. Curioso, ancora una volta: non c’è stata nessuna denuncia dei cosiddetti progressisti a proposito di «una minaccia buddista sul diritto a vivere la differenza sessuale».
IL TIMONE - N.65 – ANNO IX – Luglio/Agosto 2007 pag. 64-66