Fra i grandi Pontefici degli ultimi due secoli, ricordiamo Leone XIII, nel bicentenario della nascita.
Diplomatico e pastore, uomo di elevata cultura, seppe portare la Chiesa “dalla protesta alla proposta”, dandole un Magistero articolato e profondo. Il suo contributo all’apologetica storica
La Chiesa alla fine del XIX secolo
Nel 1878 la Chiesa “stava sulle barricate”, soprattutto ma non soltanto in Italia. Dopo la sconfitta di Napoleone e il Congresso di Vienna, con la Restaurazione del 1815 e il processo di disgregazione della civiltà cristiana non si era fermato se non apparentemente, per riprendere attraverso l’opera delle società segrete e di quei governi che non volevano rinunciare ai principi rivoluzionari.
Da un punto di vista culturale dominavano l’illuminismo e il romanticismo, due modi opposti di esaltare ideologicamente valori naturali e cristiani, come la ragione, la libertà e la nazione che, staccati dal contesto di una visione del mondo realistica ed equilibrata, divennero strumenti di odio e di sovversione.
Consapevole di ciò, ma anche della propria debolezza storica dopo il ventennio di oppressione napoleonica e i 50 anni di soppressione della Compagnia di Gesù (i gesuiti erano le “forze speciali” della Chiesa dell’800), la Chiesa si oppose a partire dal 1848 alla Rivoluzione, dopo il fallito tentativo del beato Antonio Rosmini, con la forza e l’enfasi che caratterizzarono il pontificato dell’altro beato, papa Pio IX. Trent’anni dopo, però, la Rivoluzione governava l’Italia e gran parte d’Europa, e Leone XIII si dovette porre il problema di indicare ai fedeli una via per evangelizzare e inculturare un mondo ormai diviso fra il paese legale, massonico e ostile ai principi cristiani, e il paese reale ancora in buona parte legato al cristianesimo, anche se insidiato dall’avanzata del movimento socialista.
La sua principale preoccupazione fu quella di offrire ai cattolici, soprattutto europei perché erano quelli che vivevano all’interno del mondo conquistato dalla Rivoluzione, una risposta ai tanti problemi sollevati dai mutamenti avvenuti nel corso di 50 anni, dopo la Restaurazione, dopo le rivoluzioni del 1830 e del Quarantotto, dopo la vittoria dei liberali in Italia nel 1861 e la fine del potere temporale del Pontefice nel 1870. Ecco il motivo delle encicliche sulla libertà (Libertas, 1888), sullo Stato (Immortale Dei, 1885), sui doveri dei cittadini (Sapientiae christianae, 1890), sulla filosofia (Aeterni patris, 1879), sulla questione operaia Rerum novarum, 1891). Quest’ultima ancora oggi viene ricordata come l’inizio della dottrina sociale, ma in realtà essa deve essere letta all’interno di quel “corpo dottrinale leoniano”, di cui ha scritto Augusto Del Noce nelle sue opere proprio a proposito del magistero di Papa Pecci.
Apologetica e storia
Un Magistero che sembra una sorta di apologetica a tutto campo, con lo scopo di armare i cattolici di risposte ragionevoli e plausibili, con cui affrontare l’ostilità dei governi e riconquistare il consenso degli uomini vittime della propaganda rivoluzionaria. Moderato e diplomatico nei rapporti con gli Stati (per esempio col governo francese, verso il quale attuò il ralliement dei cattolici, cioè la richiesta ai cattolici francesi di rinunciare alla pregiudiziale antirepubblicana), fu invece molto profondo e rigoroso nella elaborazione dottrinale.
Seppe anche intuire la pericolosità del socialismo, che aveva lanciato la propria sfida al mondo con il Manifesto del partito comunista del 1848 e che si costituì in partito italiano nel 1892, così che nella Rerum novarum non soltanto indicò la responsabilità degli Stati di affrontare la questione della umiliazione subita dal ceto operaio dopo la soppressione del sistema corporativo e la rivoluzione industriale, ma pose al centro del documento la difesa della proprietà privata come istituto naturale ed essenziale per il bene comune, contro ogni socialismo.
Mi piace ricordare, con le parole di papa Giovanni Paolo II, il suo grande contributo all’apologetica storica. Un contributo minimo rispetto ad altri temi che il Papa ha certamente trattato di più, ma molto significativo.
Leone XIII sosteneva che la Chiesa non dovesse temere nulla dai documenti e perciò decise di aprire agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano e la Biblioteca Apostolica e, contemporaneamente, di istituire una commissione cardinalizia che affrontasse le tematiche storiche relative alla vita della Chiesa, l’antesignana dell’attuale Pontificio Comitato di Scienze Storiche.
La decisione venne presa nel 1883, tredici anni dopo la Breccia di Porta Pia, quando la Chiesa, e Roma in particolare, si trovava ancora nel mezzo della tempesta laicista prodotta dall’unificazione politica d’Italia.
Essa testimonia come il Pontefice, pur in mezzo a svariati e drammatici problemi molto più urgenti e gravi, riuscì a non dimenticare la missione specifica della Chiesa, che è quella di evangelizzare tutti gli uomini e ogni ambito dell’azione umana, fra cui naturalmente la storia.
Ma quella decisione è importante forse anche per un altro motivo. Essa ci ricorda che l’apologetica nel campo della storia comincia dalla ricerca e dal rispetto della realtà. Per questo servono i documenti e chi li raccolga e li metta in ordine: questo era uno dei problemi di allora, dopo il trasferimento forzato dell’archivio vaticano in Francia durante l’oppressione napoleonica, che aveva provocato la perdita di molti documenti e creato una immaginabile confusione. Ma Leone XIII volle dare un segnale, lo stesso che sarà alla base della “purificazione della memoria” di Giovanni Paolo II: anche a costo di apparire ingenui e nella consapevolezza che anche gli uomini di Chiesa hanno sbagliato e possono sbagliare, la Chiesa cerca e vuole la verità, anche quella scomoda.
Segnati dal secolo delle ideologie (1914-1989), oggi stentiamo ancora a comprendere certe operazioni culturali. Molti nostri contemporanei pensano all’apologetica storica come alla giustificazione “scientifica” (o ideologica) di quanto la Chiesa ha compiuto, mentre è proprio la stessa Chiesa a insegnare al mondo un approccio diverso: tenere conto dei fatti e dei documenti; esaminarli nell’ambito del contesto storico in cui si sono verificati, senza pretendere di giudicare eventi del passato con le categorie odierne; infine, non rinunciare alla propria identità, perché non esiste lo storico neutrale, ma ogni storico ha una filosofia della storia con la quale affronta fatti e documenti, anche se pretende di non averne alcuna.
In questo senso Giovanni Paolo II si rivolgeva nel 2003 ai partecipanti a un convegno dedicato al legame fra Leone XIII e gli studi storici, organizzato da coloro che hanno ereditato la gestione dell’organismo appunto voluto dal Papa allora: «Ecco perché occorre rinunciare a qualsiasi strumentalizzazione della verità. L’amore degli storici per il proprio popolo, per la propria comunità anche religiosa, non deve entrare in competizione con il rigore per la verità elaborata scientificamente. È da qui che ha inizio il processo della purificazione della memoria».
BIBLIOGRAFIA
IL TIMONE N. 94 – ANNO XII – Giugno 2010 – pag. 58 – 59
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