L'antipolitica nasce dall'estrema frantumazione in cui si trova il corpo sociale in seguito al venir meno dei valori comuni. Lo Stato non appare più l'espressione nella vita pubblica di un ordine naturale e di una gerarchia voluti da Dio.
E il popolo non lo comprende.
A partire dal cosiddetto «riflusso» degli uomini nel privato, dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è andata affermando una tendenza anti-politica che negli ultimi tempi in Italia si è espressa nel fenomeno del «grillismo», una serie di manifestazioni-spettacolo che si servono di una satira discutibile per alimentare l'antagonismo politico della piazza.
Il fenomeno dell'antipolitica
Si tratta di un fenomeno preoccupante almeno per due ragioni. In primo luogo perchè non offre gli strumenti per distinguere tra uso legittimo e illegittimo del potere, limitandosi a trasmettere l'idea che la corruzione sia legata all'uso del potere in quanto tale. In secondo luogo perchè la critica al «sistema», così come viene proposta da Seppe Grillo, appare incompatibile con la collaborazione alla costruzione del bene comune, a cui invece ciascuno è moralmente tenuto.
Riflettendo sulle ragioni dell'anti-politica, i commentatori hanno sottolineato le responsabilità della classe dirigente, non solo per la scarsa capacità di trovare soluzioni a problemi concreti, quanto soprattutto per l'incapacità di colmare il vuoto lasciato dalla caduta delle ideologie. Certamente questa responsabilità esiste, tuttavia non sembra una spiegazione sufficiente della crisi in cui attualmente versa la rappresentanza politica non solo nel nostro paese ma, in misura diversa, in tutto il mondo occidentale. La crisi della politica è legata a quella che il sociologo Giuseppe De Rita ha definito «coriandolizzazione» della società, indicando con questa espressione la condizione di estrema frantumazione in cui si trova il corpo sociale in seguito al venir meno dei valori comuni su cui si è edificata la società occidentale.
Un mondo in frantumi
Si tratta di un fenomeno preannunciato da tempo; è da poco passato il quarantesimo anniversario del discorso tenuto ad Harvard l'8 giugno 1978, in cui Alexandr Solgenitzin descriveva la frantumazione della società occidentale. Si trattava allora di un segnale d'allarme lanciato, in un momento di generale assopimento delle coscienze, dal grande dissidente russo recentemente scomparso, uno dei maggiori testimoni della lotta contro il totalitarismo comunista realizzatosi in Unione Sovietica dopo il 1917 e in particolare nella seconda metà del XX secolo. Sin da quarant'anni fa, per Solgenitzin era evidente che la civiltà occidentale era in crisi e che tale crisi non poteva essere considerata una semplice conseguenza della divisione ideologica e politica tra mondo libero e mondo comunista. Il suo sguardo individuava, al di sotto della divisione in due blocchi, l'azione di ulteriori forze di disgregazione tra nazioni, gruppi sociali e singoli individui; erano i segni di una frattura più profonda, prodotta da cause culturali e morali prima ancora che politiche.
La cultura, osservava Solgenitzin, nasce da un equilibrio tra valori spirituali e materiali; il suo sorgere e perdurare sono legati al mantenimento di tale equilibrio che è manifestazione della vita interiore dell'uomo. Il sintomo più evidente della crisi di una cultura è il declino del coraggio, la scomparsa di quel vigore interiore che pone la difesa dei valori irrinunciabili al di sopra del proprio bene particolare e non si lascia paralizzare dal timore esagerato delle possibili conseguenze.
Quando la ricerca del benessere materiale individuale si afferma come valore supremo, si apre la porta ad ogni eccesso e ad ogni bassezza morale, i quali vengono mascherati da buon senso; contemporaneamente, la società perde la volontà di difendersi, è disponibile a qualsiasi compromesso con i nemici interni ed esterni che attaccano il patrimonio di valori tradizionali su cui si è edificata. La strategia del «cedere per non perdere» e del «dialogo» per raggiungere un compromesso viene applicata in ogni situazione tranne, naturalmente, verso chi ricorda e difende pubblicamente tale patrimonio.
Il problema della democrazia moderna
Lo strumento che ha favorito l'introduzione del pluralismo relativista nell'ambito politico è stato la democrazia moderna, nata nel contesto ideologico prodotto dai principi veicolati dalla Rivoluzione del 1789, prima in Francia e poi in Europa. Come osserva Solgenitzin, il coinvolgi mento del popolo nelle decisioni del governo, cioè il concetto classico e cristiano del termine democrazia, era diverso: «nelle prime democrazie, compresa quella americana alla sua nascita, tutti i diritti venivano riconosciuti alla persona umana solo in quanto creatura di Dio». In altre parole, la libertà veniva conferita al singolo presumendo una sua permanente responsabilità religiosa e il conseguente riconoscimento di non essere l'artefice della verità e del bene. Oggi invece i diritti individuali, svincolati da ogni riferimento al progetto di Dio sull'uomo, sono diventati il fondamento che legittima la rivendicazione di una libertà senza limiti di nessun tipo.
Il ruolo dello Stato e l'insegnamento di Guardini
Come scrive Romano Guardini nelle Riflessioni sulla formazione politica, «la vita politica è la vita della totalità in quanto tale»; essa ha bisogno, per concretizzarsi, di una realtà che unifichi, regoli e promuova il bene del singolo e della collettività.
Questo è possibile soltanto se lo Stato – inteso come massima espressione del principio d'autorità nella vita pubblica – possiede maestà, legittimità e autorità. Guardini individua il compito propriamente politico dello Stato nel fatto che esso rappresenta e fa valere la maestà di Dio nell'ambito della vita naturale. Non perciò negli aspetti religiosi in cui è competente la Chiesa, ma nell'ordine naturale.
Lo Stato rappresenta la maestà di Dio anzitutto attraverso il suo modo di esistere. Non esiste semplicemente, ma esiste di «diritto». Ciò significa che il fondamento della sua autorità sta nell'essere un'immagine terrena di Dio, autorità che sorregge tutto il creato. Il senso dello Stato è che, al di là di ogni scopo specifico relativo al bene dei cittadini, il diritto «ci sia». L'affermazione del diritto è l'affermazione dell'esistenza di un ordine naturale posto da Dio. In ultima istanza ogni legge è emanata in nome di Dio e soltanto per questa ragione lo Stato ha il diritto d'impiegare il suo potere costringendo ad obbedire al diritto. L'esistenza di una dimensione pubblica dell'autorità è la condizione perchè i singoli, le famiglie e gli organismi sociali possano crescere all'interno di un certo ordine.
Il rifiuto di Dio e la proclamazione di un'impossibile neutralità religiosa, che di fatto si traduce in ateismo pratico, tolgono legittimità all'autorità politica insidiandone il fondamento.
La profonda crisi culturale apertasi nel 1968 ha colpito soprattutto il principio d'autorità nei suoi diversi ambiti e dunque anche nello Stato. Quest'ultimo non appare più, nel senso comune dei popoli occidentali, come l'espressione ultima nella vita pubblica di un ordine naturale e di una gerarchia voluti dal Creatore per il bene e lo sviluppo dell'uomo e dei corpi intermedi ma, al contrario, e grazie anche alla pessima qualità morale e professionale delle classi politiche, viene considerato come negativo e intrinsecamente oppressivo. E tutto questo favorisce fenomeni come quello dell'antipolitica, che ha caratteristiche sovversive, tendenzialmente anarchiche, e che, d'altra parte, esprime il profondo malessere di un popolo che non viene più educato alla comprensione del principio d'autorità e quindi stenta ad apprezzare i fondamenti provvidenziali dell'esercizio del potere politico.
RICORDA
«Non c'è autorità se non da Dio».
(S. Paolo, Lettera ai Romani 13,1).
BIBLIOGRAFIA
Romano Guardini, Riflessioni sulla formazione politica, in Idem, Opera omnia, vol. VI, Scritti politici, Morcelliana, 2005.
IL TIMONE – N.76 – ANNO X – Sett/Ott. 2008 – pag. 32-33