La speranza è una tensione del cuore, un'atteggiamneto naturale e una virtù soprannaturale, che attende e anticipa il bene e la vita eterna. È ragionevole, sfocia nella magnanimità.
Le si oppongono la disperazione e la presunzione.
Nella recente enciclica Spe salvi, Benedetto XVI ha descritto in un grande affresco la vicenda della speranza nella cultura: dal suo ingresso nella storia, come presenza concreta donata ad ogni singolo uomo e alla società – e in virtù della quale è possibile affrontare un cammino anche faticoso -, al successivo attacco che l'idea di libertà moderna, svincolata da ogni legame con la verità, ha portato alla speranza cristiana, fino alla possibilità della sua restaurazione.
Con questa grande riflessione il Papa intende non solo ripresentare il messaggio della Rivelazione sulla speranza, ravvivando la coscienza delle realtà che attendono l'uomo dopo la morte, ma anche ribadire la ragionevolezza dell'attesa del bene definitivo. La riflessione sulle ragioni della speranza non è una novità per il pensiero cristiano, essa è presente nella tradizione sin dall'inizio e ha trovato un interprete di eccezionale profondità in san Tommaso d'Aquino (1221-1274); il nostro tempo tuttavia, dominato da una regione scettica ed esangue, ha bisogno di rivitalizzare la consapevolezza del significato della vita presente, riconoscendo il suo radicamento in una speranza forte, non una generica aspettativa di beni finiti, ma tensione al Bene che non viene meno e perciò salva l'uomo sottraendolo alla caducità.
Il cammino di ogni uomo conduce alla morte; essa è la fine della vita terrena, ma non è il suo fine e il suo senso. Sarebbe il suo fine e il suo significato se la morte fisica fosse l'annientamento totale dell'uomo; allora l'uomo nascerebbe per mangiare, bere, riprodursi e poi morire, e la morte sarebbe l'annullamento totale. Ma l'annientamento totale è impossibile e irreale. Non c'è nessuna fine in senso assoluto, nel senso cioè dell'estinzione radicale dell'essere: come l'uomo non può disporre della propria origine, ponendo il proprio esistere, allo stesso modo non può disporre della «capacità del non essere». Infatti, ogni realtà che esiste, senza essere l'Essere stesso (cioè senza essere Dio), vive per l'afflusso di esistenza comunicatale dalla causa prima che è Dio.
L'uomo, impotente rispetto all'inizio della sua esistenza – non solo perché non decide della sua generazione, ma, in senso più profondo, perché non ha potere sulla radice del proprio essere -, è impotente anche rispetto alla sua fine, nel senso che non dispone del potere di distruggere ed annullare il proprio essere. Anche il suicida, che cerca la morte come una liberazione, può mettere fine solo all'esistenza terrena, ma non ha il potere di «revocare» il suo essere con un annientamento assoluto.
Se è vero che l'uomo è incapace di porre e di togliere l'essere, allora dovrà prepararsi ad una fine diversa dall'annullamento, una fine che non dipende da lui, ma dalla Causa che l'ha creato e che ha già manifestato la propria volontà di far permanere nell'essere le cose, creandole perché esse siano.
L'uomo si dovrà preparare ad una sopravvivenza in un ambito non più temporale, ma definitivo.
La transitori età dell'esistenza, letta alla luce della natura dell'essere creato, chiarisce e definisce la condizione umana: l'uomo è qualcuno che è «per via», qualcuno in cammino verso un compimento che deve essere raggiunto. Mentre la natura del «compimento» che dona la felicità non dipende dalla decisione dell'uomo, ma dalla sua natura, la scelta di dirigersi o no verso di esso dipende totalmente dalla persona. L'uomo può arrivare alla fine della vita senza aver raggiunto il proprio fine o, addirittura, può essersi incamminato nella direzione opposta alla meta.
Lo stato di chi «è in viaggio», lo status viatoris, secondo l'espressione del filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997), «non è, nel senso più ovvio ed esteriore, una designazione di luogo, designa invece la più intima costituzione dell'essere della creatura, il suo interiore essenziale "non ancora", che racchiude in sé un negativo e un positivo: il "non essere" del compimento e la tendenza al compimento».
Per l'uomo, che apprende la sua condizione di creatura nello status viatoris, c'è solo una risposta appropriata a tale esperienza: la speranza. La speranza è un atteggiamento semplice e primigenio, una tensione del cuore, che desidera e attende con fiducia ciò che «non è ancora» e che costituirà il compimento. La speranza, dunque, sia come atteggiamento naturale, sia come virtù soprannaturale, è attesa e anticipazione del compimento. Il protendersi dell'uomo verso il proprio bene, che costituisce il nucleo essenziale della speranza, sfocia naturalmente nella virtù della magnanimità, che spinge a desiderare grandi cose, confidando con coraggio di poter realizzare la più grande possibilità di «poter essere»; contemporaneamente, la speranza attende possibilità reali grazie al riconoscimento della distanza inesprimibile tra creatore e creatura. È l'umiltà a svelare e ad accettare l'infinita distanza dell'uomo da Dio e, con ciò, a preservare la speranza dal desiderio di realizzazioni apparenti e illusorie.
Nonostante la speranza sia l'unica risposta che, per la sua ragionevolezza, è conveniente ed adeguata alla condizione umana, essa può essere oscurata, sia nella vita dei singoli che nella società, dalla disperazione e dalla presunzione.
Disperare significa anticipare il fallimento radicale, ancora non verificatosi, della propria esistenza; la disperazione qui non è intesa come stato d'animo, ma come orientamento della volontà che determina l'agire. Chi dispera contraddice la realtà dell'esistenza, egli nega che la vita dia la possibilità di realizzare il bene desiderato. Ma negare che la vita è via verso il compimento infrange la natura dell'uomo, che non può non tendere al proprio fine; il disperato, perciò, nega la propria stessa natura procurandosi un dolore indistruttibile. La disperazione è una sventura che diventa irreparabile solo con la morte (quando, finito il tempo, viene meno la possibilità di orientarsi alla verità dell'esistenza e la vita rimane definitivamente rivolta alla negazione del compimento).
C'è infine anche la presunzione che si oppone alla speranza attraverso l'anticipazione del compimento che può avvenire in due diversi modi: il primo è quello di chi ritiene che le azioni compiute durante l'esistenza terrena siano alla fine ininfluenti nel determinare la sorte definitiva dell'uomo, perché, essendo Dio misericordioso, tutti si salveranno; il secondo è quello di chi ritiene che l'uomo sia autosufficiente nel conseguire il proprio fine e perciò la propria salvezza.
Sia la disperazione, come anticipazione del fallimento, sia la presunzione, come anticipazione ingiustificata del compimento, annientano il senso dell'esistenza dell'uomo nel tempo che sta nell'esser per via.
RICORDA
«Ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta possiamo essere sicuri». (Benedetto XVI, Spe salvi, n. 1).
BIBLIOGRAFIA
Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007.
Josef Pieper, Sulla speranza, Morcelliana, Brescia, 1960.
Josef Pieper, Speranza e storia, Morcelliana, Brescia, 1969
Massimo Introvigne, Spe salvi. Il dramma della speranza, in quattro atti, di Benedetto XVI, in
www.cesnur.org/2007.
IL TIMONE N. 72 – ANNO X – Aprile 2008 – pag. 32-33