Il “Climagate”, lo scandalo che dimostra come i dati sul clima siano stati aggiustati da autorevoli scienziati per supportare le tesi catastrofiste, impone una riflessione sul modo attuale di fare scienza.
E si scopre che la secolarizzazione costituisce un grave ostacolo alla conoscenza dei meccanismi della natura
Nell’epoca in cui la scienza sembra spiegare la sua massima potenza, essa dimostra invece la sua estrema fragilità.
E la questione dei cambiamenti climatici appare come la sua Caporetto. È un paradosso apparso evidente il 20 novembre scorso quando un pirata informatico russo ha “rubato” migliaia di email dalla banca dati della Climate Research Unit (CRU) della Università East Anglia (Regno Unito). In questo modo è stato reso pubblico un lungo e ripetuto scambio di informazioni tra eminenti scienziati per “aggiustare” i dati sul clima in modo da non pregiudicare la tesi che attribuisce all’uomo la responsabilità per un “catastrofico” riscaldamento globale. La vicenda, il “Climagate” come è stata ribattezzata, ha creato notevole imbarazzo anzitutto per il ruolo della CRU, che è una dei principali partner dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo dell’ONU i cui Rapporti sono alla base degli allarmi sul clima e delle relative politiche globali.
In secondo luogo perché è scoppiato alla vigilia del vertice di Copenhagen sul clima, concepito come una marcia trionfale del catastrofismo e che non tollerava quindi nessun elemento di disturbo.
La lettura delle mail offre un quadro sconfortante sull’attività di tanti scienziati di fama, più dediti alla promozione di un’agenda politica e dei propri istituti che non alla ricerca e alla comprensione dei fenomeni naturali. Si potrebbe obiettare che magari si tratta di un episodio isolato, ma le cose in realtà stanno ben diversamente. Non bisogna andare molto indietro nel tempo per ricordare cosa è successo – e cosa succede – nella ricerca sulle cellule staminali, con l’ostinazione a usare gli embrioni quando non è affatto necessario e con i falsi annunci di avvenute clonazioni.
C’è sicuramente un problema che riguarda la “scienza che appare”, ovvero gli scienziati sotto la luce dei riflettori dei media che, volenti o nolenti, piegano la loro attività ai tempi rapidissimi richiesti dalla comunicazione di massa quando invece i risultati scientifici hanno bisogno di tempi lunghi. Questi sono certamente una minoranza, tendono però a presentarsi come il volto ufficiale della scienza e – grazie al loro apparire – si guadagnano la maggior parte dei fondi pubblici destinati alla ricerca. Nel caso del clima, poi, si è assistito già dagli anni ’80 alla trasformazione della scienza in politica: una minoranza di scienziati o di centri di ricerca ha monopolizzato la scena andando ben oltre il ruolo istituzionale che è quello di fornire dei dati su cui poi i governanti devono basare le proprie decisioni. Si è verificato invece che gli scienziati, trasformatisi in attivisti, hanno anche orientato le scelte politiche.
Il caso più clamoroso è quello di James Hansen, scienziato della NASA, il quale – in combutta con senatori ecologisti vicini all’allora vice-presidente Al Gore – nel giugno 1988 si fa organizzare un’audizione al Congresso USA per lanciare un allarme sul riscaldamento globale che avrà grosse conseguenze politiche. Ma anche la già citata IPCC nasce da questo ambiguo rapporto tra scienza e politica. Infatti, anche se l’organismo ONU viene presentato al pubblico come la massima assise internazionale degli scienziati del clima, in realtà – come dice la sigla stessa – è un comitato inter- governativo: vale a dire che i governi danno la direzione, scelgono gli scienziati che ne fanno parte, valutano i rapporti, li aggiustano a seconda delle necessità.
In pratica è un organismo che si serve del lavoro di molti scienziati – ognuno nel suo piccolo ambito di competenza – ma la sua guida è eminentemente politica.
Anche il segretario dell’IPCC, attualmente l’indiano Rajendra Pachauri, non è un climatologo bensì un ingegnere meccanico esperto di ferrovie.
La deriva ideologica e politica di certa scienza è dimostrata anche da un altro fatto curioso legato al “Climagate”: il CRU al centro dello scandalo è anche l’istituto che viene citato come principale fonte da un Rapporto sul clima preparato nel 1974 per la CIA e tornato alla luce alla fine di novembre. Solo che allora, questo “prestigioso” istituto, i cui scienziati erano stati capaci di ricostruire gli scenari climatici degli ultimi 50 milioni di anni, prevedeva una prossima età glaciale, ovviamente con tutti gli stessi effetti catastrofici che oggi vengono attribuiti al riscaldamento globale.
Ma aldilà della “scienza che appare” e del sistema corrotto che genera, non si può non notare un cambiamento che riguarda più in generale il mondo scientifico e che fa nascere alcune domande. Un cambiamento culturale e di prospettiva che si può far risalire agli anni ’50 e che si accompagna a un duplice processo: da una parte l’ingresso nell’era nucleare che – grazie anche allo scoppio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki – fa drammaticamente prendere coscienza della potenza distruttrice dell’uomo che, per la prima volta nella storia, è potenzialmente in grado di cancellare l’intero pianeta; dall’altra il rapido processo di secolarizzazione che investe l’Occidente.
La scienza nasce e si sviluppa storicamente come indagine dell’uomo sulla natura che è donata da Dio. Così come una donna è desiderosa di aprire il regalo del suo amato per conoscerne il contenuto, così l’uomo che ama Dio cerca di conoscere i meccanismi della natura che Dio stesso gli ha donato.
La molla della scienza è quindi l’amore e lo stupore davanti alla grandezza del dono, il desiderio di scoprire i meccanismi della natura. Con la secolarizzazione e la scoperta del terribile potere dell’uomo, la scienza comincia invece a diventare una ricerca di tutti i possibili danni che gli uomini possono infliggere alla natura.
Da uno stupore per la grandezza della natura si passa alla riflessione pessimistica sull’agire umano. Ciò è particolarmente evidente nell’attuale dibattito scientifico sul clima dove – anche a causa dell’imposizione della teoria del riscaldamento globale – la questione sembra girare soltanto intorno alle responsabilità da attribuire all’uomo nei cambiamenti del clima.
Il rovescio della medaglia è un uomo scientifico “orgoglioso” del suo potere, convinto che con la scienza può tutto, come il caso della bioetica dimostra ampiamente.
In un caso e nell’altro, però, a rimetterci è proprio la conoscenza, che non può essere ridotta a mera acquisizione di dati e nozioni. La cancellazione di Dio perciò, eliminando il dato oggettivo che consiste in una natura che nella sua essenza è mistero, genera una serie di attitudini e comportamenti che sono distruttivi.
Ma anche, venendo a mancare un riferimento superiore all’uomo, rende vulnerabile la scienza e gli scienziati a ogni genere di strumentalizzazione e deriva ideologica.
IL TIMONE N. 89 – ANNO XII – Gennaio 2010 – pag. 18 – 19