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3.12.2024

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La Croce fa bene alla salute
31 Gennaio 2014

La Croce fa bene alla salute

 

 

 

Dalle epidemie al tempo di Marco Aurelio a quelle odierne in Africa, laddove c’è una comunità cristiana si muore di meno: l’esempio dei tanti “martiri” che hanno dato la propria vita per permettere agli altri di sopravvivere. E di morire serenamente.

 

Nel 165 d.C., durante il regno di Marco Aurelio, l’impero romano fu colpito da un’epidemia – probabilmente di vaiolo – che imperversò per 15 anni uccidendo da un quarto a un terzo della popolazione.
Un’altra epidemia letale decimò gli abitanti dell’impero un secolo dopo e un’altra ancora il secolo successivo. Benché le nozioni mediche fossero elementari, si capiva che il contatto con i malati era pericoloso e al primo sintomo la gente gettava gli ammalati fuori casa, per strada, lasciava insepolti i cadaveri, ammucchiandoli come spazzatura, si chiudeva in casa o, se poteva, si trasferiva in campagna per isolarsi.
Non così fecero i cristiani. “La maggior parte dei nostri fratelli ha mostrato amore e lealtà infiniti – scriveva il vescovo di Alessandria, Dionigi, intorno al 251 d.C. – poiché non si sono mai risparmiati e hanno sempre pensato l’uno all’altro. Incuranti del pericolo, si sono fatti carico degli ammalati, occupandosi di ogni bisogno e portando aiuto in Cristo, consentendo loro di lasciare questa vita serenamente felici. […] I migliori dei nostri fratelli perdono la loro vita in questo modo, molti presbiteri, diaconi e laici si guadagnano le lodi più alte, così che la morte in questa forma, risultato di una grande pietà e di una fede salda, sembra equivalere in ogni modo al martirio”.
L’amore e la fede cristiani non solo consentivano ai malati di morire serenamente, ma anche di guarire. È stato calcolato che durante le epidemie la mortalità tra i cristiani era inferiore anche di due terzi rispetto a quella dei pagani: “La semplice somministrazione di cibo e acqua, per esempio, avrebbe permesso alle persone momentaneamente deboli di combattere per guarire invece di perire miseramente”.
In tempi normali le comunità cristiane si facevano carico di orfani, anziani, vedove e disabili. I loro membri, al bisogno, aiutavano e ricevevano aiuto. Questa disponibilità a collaborare e spartire ne migliorava le condizioni di vita. Lo prova il fatto che mediamente vivessero più a lungo dei pagani, come dimostrano, ad esempio, i dati ricavati dai monumenti e dalle epigrafi tombali.
Quando potevano, i cristiani si prendevano cura anche dei pagani. Nel 362 d.C. l’imperatore Giuliano attribuiva il successo del cristianesimo alla benevolenza mostrata dai suoi fedeli “verso gli estranei e alla loro cura delle tombe dei morti”, alloro carattere morale, “anche quando si tratta di una messa in scena”, vale a dire – nell’interpretazione dell’imperatore – di un espediente per convincere e convertire. “lo penso – scrisse in una lettera indirizzata a un sacerdote pagano che cercava di convincere a promuovere istituti di carità sull’esempio di quelli cristiani – che quando succede che un povero è trascurato e dimenticato dai nostri sacerdoti, gli empi Galilei se ne accorgono e subito accorrono con la loro beneficenza. […] Gli empi Galilei sostengono non solo i loro poveri ma anche i nostri, mentre chiunque può vedere che da noi la nostra gente non riceve aiuti”.
Uganda, quasi duemila anni dopo: nel nord del Paese nell’autunno del 2000 scoppia un’epidemia di ebola, un virus che non lascia scampo: non esistono cure in grado di guarire, si sa che le epidemie precedenti hanno causato la morte, dopo una spaventosa agonia, de1l’80-85 per cento dei malati. Il contagio avviene per semplice contatto con le deiezioni e le secrezioni delle persone infette, anche quando sono disperse nell’aria in particelle piccolissime. Si diffonde il panico, la popolazione incendia le capanne degli ammalati, rifiuta di seppellire i morti, il personale degli ospedali fugge, chi resta non si avvicina ai pazienti e lascia che siano i parenti ad assisterli, se sono disposti a farlo. Invece nell’ospedale missionario Lacor del distretto di Gulu, diretto da Matthew Lukwiya, un affermato medico africano di 43 anni, 90 unità di personale – medici, infermieri, portantini di entrambi i sessi, tutti cristiani, cattolici e anglicani – si offrono volontariamente per allestire un reparto speciale dove organizzare la resistenza all’epidemia.
In tre mesi i casi di ebola registrati sono 396, ma i morti sono soltanto 150, vale a dire meno del 40 per cento dei contagiati: “Qui i pazienti di ebola sono stati assistiti, all’ospedale governativo no – spiegava la caposala italiana del Lacor a emergenza finita – assistere un paziente vuoi dire lavarlo, cambiario, imboccarlo e farlo bere se non ce la fa da solo, mettere e togliere la flebo. Tutto ciò al Lacor l’ha fatto il personale direttamente, al governativo l’hanno fatto fare ai parenti, internati anche loro in isolamento”.
Per questo tra i dipendenti del Lacor il numero di decessi è elevato: ben 15. Scriveva Matthew Lukwiya all’indomani del funerale di una delle sue infermiere: “Davanti a noi si sta dispiegando un grande mistero di luce. Dal nostro personale che è morto a causa di ebola non abbiamo mai udito una parola di risentimento, di rabbia o pentimento per aver accettato di lavorare in situazioni così rischiose. Solo ringraziamento e incoraggiamento a perseverare […] o lode a Dio […]. Il martirio e la santità del nostro personale sono un dono che il presente e il futuro dovranno valorizzare. Sono tutti giovani, al termine dei loro studi, con davanti sogni e progetti per l’avvenire, eppure si prodigano rischiando la vita e sacrificando la per evitare una grossa catastrofe”. Sedici giorni dopo anche Matthew Lukwiya entrava in quel grande mistero di luce.
Da duemila anni capacità di fare e volontà di far bene, a beneficio di tutti, caratterizzano l’essere cristiani.
Nel segno della croce non soltanto si trovano consolazione e un senso al patire, ma anche una vita più comoda, libera e operosa, le condizioni che consentono all’uomo di ingegnarsi a vivere meglio e più a lungo, la disposizione a considerare nostro pari e nostro prossimo ogni creatura umana.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Rodney Stark.’ Massimo Introvigne, Dio è tornato, Piemme.2003.
RodoIfo Casadei, Santi e demoni d’Africa, l’Harmattan Italia 2001. .
Anna Bono, La nostra Africa,Il Segnalibro 1998.

 

 

 

 

IL TIMONE N. 38 – ANNO VI – Dicembre 2004 – pag. 18 – 19

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