Lunedì 15 Dicembre 2025

La condanna che non piacque all'Imperatore

Quale fu il ruolo dei romani nel processo a Gesù? Il vero giudizio si svolse davanti a Ponzio Pilato, oppure al sinedrio? La ricerca storica più seria conferma il racconto dei Vangeli. E rivela che perfino Tiberio non gradì quella crocifissione.

La ricostruzione che i Vangeli danno del processo di Gesù davanti a Pilato è, pur nelle varianti e nelle aggiunte, profondamente unitaria: sia i sinottici (Matteo, Marco e Luca) che Giovanni sono concordi nel dire che l’accusa portata dalle autorità giudaiche davanti al prefetto romano (tale era il titolo del governatore di Giudea, risultante da un’iscrizione di Cesarea) era quella di essersi proclamato re dei Giudei (Mt 27,11; Mc 15,2; Lc 23,2, che aggiunge l’accusa di sobillare il popolo e di impedire il pagamento del tributo; Gv 18,33). Essi sono anche concordi nel dire che Pilato dichiarò di non aver trovato alcuna colpa in Lui e si offrì di liberarlo in alternativa con Barabba. Matteo aggiunge l’ammonimento della moglie di Pilato «a non immischiarsi nelle cose di quel Giusto» (Mt 27,19); Luca aggiunge l’invio di Gesù ad Erode e l’affermazione di Pilato secondo la quale neppure il re aveva trovato in Gesù «nulla che fosse meritevole di morte» (Lc 23,18). Giovanni, che a differenza degli altri apostoli era stato presente al momento del processo come della crocifissione, aggiunge due particolari di grande importanza:
a) alla prima dichiarazione di Pilato «prendetelo voi stessi e giudicatelo secondo la vostra legge» i Giudei dissero: «A noi non è permesso dare la morte a nessuno» (Gv 18,31);
b) dopo la flagellazione e la nuova dichiarazione di Pilato di non trovare nell’accusato colpa alcuna, i Giudei insistono che Gesù deve morire secondo la loro legge perché si è fatto figlio di Dio. Pilato ha paura e finisce per cedere quando gli accusatori dichiarano che se lo avesse liberato non sarebbe stato un amico di Cesare «perché chiunque si fa re si dichiara contro Cesare» (Gv 19,7-12).
La stessa impostazione si ritrova nei discorsi riportati dagli Atti degli Apostoli (At 2,23 sgg; 3,13; 7,52 sgg.; 13,27-29) e perfino negli Apocrifi, come in quello di Nicodemo, scritto in copto, in cui Giuseppe di Arimatea dichiara Pilato circonciso nel suo cuore perché al cospetto del sole si lavò le mani e si proclamò innocente del sangue del Giusto (IX, 125 trad. Orlandi, Milano 1966).
Sappiamo d’altra parte che la chiesa copta venerava Pilato come santo e che Tertulliano stesso, alla fine del II secolo, lo riteneva convertito al cristianesimo (Apol. XXI, 24). Secondo la concorde testimonianza dei Vangeli, dunque, l’iniziativa del processo fu tutta giudaica, la condanna e l’esecuzione fu romana, ma solo dopo molte esitazioni da parte di Pilato. Questa impostazione è contestata da alcuni studiosi moderni, che rifiutano la storicità dei Vangeli con argomenti peraltro contrastanti: secondo alcuni il sinedrio aveva il potere di eseguire sentenze capitali, così che, se l’esecuzione fu romana, ciò significa che anche l’iniziativa era stata romana; secondo altri invece il sinedrio non aveva potere di giudicare e pertanto non poteva pronunziare giudizi di nessun genere. Ma l’affermazione di Giovanni, secondo cui il sinedrio poteva emettere sentenze, ma non aveva il potere di eseguire sentenze capitali, trova piena conferma nel diritto romano e nella prassi seguita normalmente dai Romani nelle province: gli editti di Cirene, che riguardano una provincia e un’epoca – quella di Augusto – molto vicina alla nostra, rivelano l’esattezza formale del procedimento descritto dai Vangeli, riservando una certa autonomia giudiziaria agli organi locali e attribuendo al solo governatore romano il potere di eseguire condanne capitali (lo ius gladii). Altrettanto importante è la seconda precisazione di Giovanni: secondo questo evangelista, infatti, come per i sinottici, l’accusa portata all’inizio davanti a Pilato dal sinedrio contro Gesù è un’accusa politica, quella di farsi re (che doveva naturalmente interessare i Romani in una provincia “calda” come la Giudea) e solo in un secondo momento, di fronte all’affermazione di Pilato di non trovare colpa alcuna nell’accusato, i rappresentanti del sinedrio si decidono a tirar fuori l’accusa religiosa, per la quale Gesù era stato giudicato e condannato dal Sinedrio stesso, quella di bestemmia, per essersi fatto figlio di Dio e in base alla quale egli doveva morire secondo la Legge, facendo anche intendere che sono pronti a ricorrere a Tiberio. Ed è a questo punto che Pilato cede. È apparentemente molto strano che Pilato si mostri indifferente di fronte ad una ben congegnata accusa politica: il suo comportamento diventa invece comprensibile se ammettiamo che egli fosse pienamente informato della natura non politica ma religiosa del messianismo di Gesù e della sua predicazione.
Gesù raccoglieva intorno a sé delle folle (i Vangeli parlano per le due moltiplicazioni dei pani e dei pesci di migliaia di persone) ed è certo che Pilato, il quale era stato pronto a intervenire per un semplice sospetto di insurrezione (come quello dei Galilei riferito da Luca 13,1-2) seguiva da tempo con attenzione il comportamento di Gesù: egli sapeva pertanto che le accuse politiche contro di lui erano false e «sapeva bene che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia» (Mc 15,10). Indifferente all’accusa politica, Pilato cede invece quando si prospetta una violazione della Legge giudaica ed un ricorso a Tiberio. Per valutare la possibilità di successo che poteva avere sotto Tiberio un ricorso del Sinedrio per una violazione della Legge giudaica, basta pensare che anche in altre occasioni le autorità giudaiche ricorsero contro Pilato a Tiberio, accusando il governatore di essere andato contro le tradizioni religiose del loro popolo ed egli fu costretto a revocare le sue disposizioni: Tiberio non voleva dare occasioni di ribellione ai provinciali e imponeva il massimo rispetto della loro religione. I Vangeli rispecchiano dunque molto bene, con la loro ricostruzione dei fatti, la situazione di una provincia come la Giudea, in cui il Messianismo era già allora motivo di forte preoccupazione per i Romani e divenne nel 66, sotto Nerone, la causa della guerra che portò alla distruzione del Tempio.
Nel caso del processo a Gesù, Pilato valutò però erroneamente la reazione di Tiberio: secondo una notizia dell’Apologetico di Tertulliano (V, 2), a torto ritenuta un’invenzione apologetica, Tiberio in seguito ad una relazione di Pilato – inviata probabilmente dopo la lapidazione di Stefano, messo a morte abusivamente dopo un processo del Sinedrio contro la legge romana – avanzò in senato una proposta tesa a riconoscere la legittimità del culto di Cristo. Avendo ricevuto un rifiuto (per il quale il cristianesimo diventava religio illicita), Tiberio pose subito il veto ad eventuali accuse contro i Cristiani. Coloro che rifiutano questa notizia sembrano non rendersi conto che la proposta di Tiberio (per la quale Eusebio e Gerolamo danno la data del 35) si adattava perfettamente alla politica di pacificazione che egli conduceva da tempo in Giudea: il messianismo cristiano, che aveva nella regione un forte seguito popolare, non era antiromano e non fomentava la violenza. Dando ad essa il riconoscimento che Roma aveva dato, fin dal tempo di Giulio Cesare, al giudaismo e che più tardi era stato dato ai Samaritani fedeli ai Romani, Tiberio voleva sottrarre i seguaci di Cristo alla tutela religiosa del Sinedrio ed evitare che esso potesse chiedere ancora interventi all’autorità romana.
Sconfitto in senato, che in età giulio-claudia aveva competenza assoluta in materia di culti, egli agì subito attraverso il suo legato Vitellio, che depose Caifa e rimandò a Roma Pilato, ristabilendo, dopo la persecuzione seguita alla morte di Stefano, la pace in Giudea per i Cristiani che, fatta eccezione per il periodo di Erode Agrippa, non furono più perseguitati in Giudea fino al 62.
In quell’anno, il sommo sacerdote Ananos, per poter mettere a morte Giacomo Minore, dovette aspettare come occasione propizia la lontananza del governatore romano e fu poi destituito, come Caifa, per lo stesso abuso: di questo ci informa Flavio Giuseppe (Antichità Giudaiche XX, 1,9 sgg.).
Tornando al processo di Gesù, la ricostruzione dei Vangeli sull’iniziativa giudaica del processo trova piena conferma sia nel famoso Testimonium Flavianum (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XVIII,64), di cui ormai si tende a riconoscere l’autenticità, sia nella lettura di un filosofo stoico siriano, Mara Bar Serapion, databile intorno al 73 d.C., che parla di un «saggio re giustiziato dai Giudei» e spiega con questa colpa la loro sconfitta nella guerra giudaica. Tacito (Ann. XV, 44,5) ricorda invece l’esecuzione di Gesù per opera di Ponzio Pilato.






Ratzinger e la Via Crucis

«Il Giudice del mondo, che un giorno ritornerà a giudicare tutti noi, sta li, annintato, disonorato e inerme davanti al giudice terreno. Pilato non è un mostro di malvagità: Sa che questo condannato è innocente; cerca il modo di liberarlo. Ma il suo cuore è diviso. E alla fine fa prevalere sul diritto la sua posizione, se stesso».
(Via Crucis al Colosseo, Venerdì Santo 2005, Meditazioni del Cardinale Joseph Ratzinger, Libreria Editrice Vaticana, 2005, p. 13).





BIBLIOGRAFIA

J. Blinzler, Il processo di Gesù, trad. it. Brescia, 1985².
J.P. Lemonon, Pilate et le gouvernement de la Judée, Parigi 1981.
M. Sordi, I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 2004, p. 15 e sgg. (con bibliografia).








Dossier: Processo a Gesù

IL TIMONE - N.51 - ANNO VIII - Marzo 2006 - pag. 39-41

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