Il 30 dicembre 2007 la riconferma di Emilio Mwai Kibaki alla presidenza del Kenya è stata contestata dal capo dell'opposizione, Raila Amolo Odinga, che ha accusato il vincitore di brogli. Subito si sono avuti scontri nel Paese, con un migliaio di morti e duecentocinquantamila sfollati. L'economia ha avuto un blocco e il turismo, una delle voci principali, è crollato. La perdita è stata valutata in un miliardo di euro al giorno. Naturalmente la vicenda ha immediatamente assunto contorni tribali e tra le etnie kikuyu e loa è finita, al solito, a colpi di machete, stupri di massa (anche di bambini), esodi.
È il solito refrain dell'Africa, dove la democrazia funziona (si fa per dire) così. Ogni etnia crea il suo partito e il risultato è una democrazia tribale. Chi riesce a insediarsi al governo favorisce la sua tribù a scapito delle altre, si comporta come un capo tribale e si circonda di sfarzo, arma i suoi seguaci, non di rado fa la guerra ai vicini o sostiene la guerriglia nello Stato a fianco.
L'opposizione, a sua volta, spesso non resiste alla tentazione di provare il golpe e la cosa finisce in guerra civile. Quest'ultima può durare decenni e causare le solite cose africane: genocidi, esodi biblici, pulizie etniche, campi profughi, fame, epidemie, catastrofi umanitarie.
In Africa avanza l'islam, ma la cosa non sembra risolva granché, visto che l'islam si porta dietro le sue variazioni e divisioni. Non solo, ma anche l'islam finisce per africanizzarsi. Per esempio, il Corriere della Sera dell'11 gennaio 2008 riferiva di un fatto avvenuto quasi come corollario dei disordini post-elettorali in Kenya, dove per parecchi giorni si è svolta una singolare processione: tutti quelli che avevano saccheggiato negozi riportavano indietro la refurtiva; certi avevano addirittura noleggiato dei furgoncini per caricarvi sopra il maltolto e restituirlo.
Tutto era partito da un commerciante di legnami e materiale da costruzioni di Mwandoni, città vicina a Mombasa. Vistosi i magazzini svuotati dal saccheggio, si era rivolto ai mullah locali e uno di questi aveva pronunciato l'«halbadiri», sorta di maledizione islamica che si indirizza ai ladri: se entro sette giorni la roba rubata non fosse tornata al suo posto, i colpevoli sarebbero morti con l'intestino e le vie urinarie bloccati. La voce si era sparsa in tutta la regione, provocando le processioni di cui si è detto. E alla' televisione c'era chi giurava di aver visto i vicini di casa morire nel modo descritto. Il giornalista Massimo A. Alberizzi spiegava sulla stessa pagina del Corsera che l'«halbadiri» sarebbe la deformazione in lingua swahili dell'arabo «AhI AI-Badr», sorta di malocchio che si lancia recitando uno dopo l'altro tutti i nomi degli eroi musulmani che nel 624 parteciparono alla battaglia di Badr (vicino a Medina) contro i pagani politeisti. La litania dovrebbe servire anche a guarire da una malattia, ma sembra che sia molto più efficace come maledizione. Infatti, nel 2004 un deputato del parlamento di Tanzania minacciò di recitarla contro i ministri corrotti ma fu fermato in tempo dai colleghi terrorizzati. Così, le vie di Mombasa e comuni limitrofi in gennaio si sono riempite di gente carica di televisori, divani, assi, sacchi di cemento, letti e ogni altro tipo di oggetto che, per scansare l'anatema, faceva ritorno al legittimo proprietario.
Qualche intellettuale africano ha avanzato timidamente l'ipotesi che forse il problema dell'Africa sta nella testa degli africani. Qualcun altro ha fatto presente che, per esempio, i giapponesi hanno perso una guerra mondiale, sono del tutto privi di risorse naturali e, per giunta, sono l'unico popolo ad essere stato bombardato con l'atomica. Eppure sono diventati una potenza economica. L'esempio è suggestivo e ci sentiremmo di appoggiarlo se non fossimo bianchi, occidentali e cristiani: il politically correct, com'è noto, esige che, per non trovarsi accusati di razzismo, occorra appartenere all'etnia (o al «gender») che si intende criticare. Ahimé, siamo pure eterosessuali, il che significa che possiamo solo tacere sempre e comunque.
Buttiamola sulla storia, allora. In Francia il governo Sarkozy ha sollevato qualche polemica quando ha proposto di far studiare nelle scuole i lati positivi che il colonialismo pur ebbe. E, a ben vedere, l'unica epoca in cui l'Africa conobbe un minimo di pace e benessere fu proprio quella. Prima, ogni tribù era endemicamente in guerra con le altre, lo schiavismo era la principale risorsa e le piste interne erano percorse da trafficanti di merce umana. Si può andare indietro per secoli e non si troverà altro. Fatta eccezione per il Nordafrica romano che crollò nel VII secolo davanti agli arabi, il continente subsahariano comincia da affacciarsi all'attenzione mondiale solo con le colonizzazioni. E le denunce di sfruttamento, ove ci furono, furono sollevate da europei a pro di altri europei, così come furono gli europei a sollevare quello dello schiavismo e a imporne l'abolizione. Poi, sotto la spinta delle ideologie, sempre europee, degli anni Sessanta del secolo XX, l'Africa venne lasciata agli africani, i quali non si adattarono alla democrazia ma adattarono la democrazia a sé stessi. Il risultato fu un intero continente diventato Terzo Mondo e letteralmente mantenuto dal Vecchio e dal Nuovo, un continente sempre bisognoso di Caschi Blu, di osservatori occidentali, di cibo, medicine, aiuti. Sempre in emergenza umanitaria, nel suo pozzo senza fondo sono finite cifre spaventose senza che la situazione abbia mai anche solo accennato a migliorare o tanto meno risolversi. Così, il negretto scheletrico dal ventre gonfio e le mosche negli occhi fa ormai parte dell'arredo consueto delle chiese, degli uffici postali e dei servizi di coda dei tiggì.
Buonsenso vuole che, quando una novità si rivela disastrosa, si torni al vecchio sistema. Ma, ahimé, la storia non torna mai su se stessa.
Ricolonizzare l'Africa riempiendola al contempo di missionari? È un'idea antistorica. Perciò, mentre gli occidentali continuano a mettere mano al portafogli, gli africani hanno deciso dì risolvere la questione «votando con i piedi» e riversandosi con ogni mezzo sulle nostre coste.
Eppure, basterebbe fare come gli italiani hanno fatto con gli albanesi dopo il crollo del comunismo: restate lì, veniamo noi.
IL TIMONE N. 71 – ANNO X – Marzo 2008 – pag. 20-21
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