Da quando hanno scoperto l’America, soprattutto i nostri politici hanno imparato a comparire in pubblico e soprattutto in tv senza la giacca, in maniche di camicia, con i piedi sulla scrivania, chiamandosi col nome di battesimo, e soprattutto conversando in inglese. Ad esempio, «Hai, Matteo, comme are iu?». Qualche volta fanno arrosti, come quando dicono «evidenza empirica», come se «evidence» non significasse prova. Qualche altra volta invece ci azzeccano, perché il calco è giusto, come nel caso di «divisive» (dəˈvīsiv), che significa controverso, lacerante, che esprime opinioni o compie azioni che creano divisioni. Ma chi è costui?
Ai tempi della mia formazione, divisivo era chiunque non fosse marxista in filosofia e comunista in politica. Me lo ricordo bene, perché fin da allora mi feci una fama di divisivo che ancora mi avvolge. Oggi, divisivo, a detta di quegli stessi che mi volevano arrostire al sol dell’avvenire, è colui che non è «liberal», cioè, con un altro calco ingannevole, chi non è considerato di sinistra, progressista, tollerante, a favore dei diritti, dell’accoglienza, del dialogo. «Liberal» viene bene, perché strizza l’occhio a liberale, aperto, disponibile, e non lascia trasparire il significato di socialista, abortista, pro choice, che ha nei paesi anglosassoni.
E così io mi ritrovo a essere non solo divisivo, ma anche illiberale, esponente di quelle che un tempo si chiamavano «le forze della reazione in agguato»…