Tra le tante accuse che vengono mosse al cristianesimo e alla Chiesa cattolica in particolare, soprattutto da quando hanno trovato sviluppo e diffusione psicologia e psicanalisi, c’è quella di una eccessiva insistenza sul concetto di peccato. Secondo chi formula questa critica, chi abbraccia la fede, cercando di seguire il Vangelo attraverso gli insegnamenti della Chiesa, verrebbe indotto dalla sua morale ad un atteggiamento psichico negativo, caratterizzato da un eccessivo timore di commettere errori davanti a Dio. E, di conseguenza, da un modo di guardare alla vita troppo “frenato” che ridurrebbe la creatività e lo slancio vitale della persona, inducendo pericolosi sensi di colpa, veri e propri complessi che ne impedirebbero uno sviluppo sa-no e completo.
Da parte cattolica si risponde che, al contrario, è il secolo presente, la modernità e la post modernità ad aver smarrito il senso del peccato, avendo perso quei riferimenti che permettono di identificarlo. Così la Chiesa precisa che, quello di oggi, è un uomo che spesso ha un concetto scorretto del suo valore di persona e della libertà nella quale si trova ad operare e, di conseguenza, anche un comportamento che non solo non lo emancipa davvero ma lo rende schiavo di modelli che non lo aiutano a raggiungere una reale maturità umana e spirituale.
Due opinioni contrarie e contrapposte. Vediamo, dunque, di approfondire un po’. Io credo che ci sia qualcosa di vero nella prima affermazione, che non sia scandaloso ammetterlo e che anzi, al contrario, possa essere liberante e utile guardare in faccia la realtà per capire davvero quale sia la natura profonda di quel peccato di cui stiamo parlando. Il rischio che la morale data all’uomo perché, seguendola, trovi la pienezza della vita possa rivelare anche aspetti negativi esiste realmente quando il Vangelo e le importanti esigenze che esso comporta vengono annunciate e presentate non come e soprattutto una “buona novella” destinata a mutare in modo radicale lo sguardo dell’uomo su se stesso e sul mondo, ma, prevalentemente, come un insieme di norme da seguire; come un sistema di leggi, insomma come, per usare una espressione che ben identifica il problema, un “moralismo”.
Penso si tratti di un pericolo vero, concreto che costituisce una continua minaccia e dal quale occorre seriamente guardarsi. E questo perché, staccare anche solo di poco le direttive evangeliche da Gesù da un incontro profondo con lui, estrarre dalla Scrittura un sistema di “valori” anche ottimi, ma in qualche modo sganciati dalle dinamiche dell’amore di Dio, della sua grazia e della sua misericordia, significa snaturarle con conseguenze che possono rivelarsi negative. Il cammino di perfezione che egli ci propone – un nostro trasfigurarci progressivo fino alla sua statura – è, infatti, così impegnativo per la natura umana che non può compiersi senza una unione profonda con lui. In caso contrario, l’osservanza delle norme può in qualche modo degenerare, diventare prevalentemente esteriore, rischiando così di scindere l’unità profonda della persona. Oppure dare luogo a stati d’animo di paura, di timore, di angoscia invece che di abbandono e di amore, che effettivamente possono bloccare un armonioso e completo sviluppo della persona. Non dimentichiamo, infatti, che, per usare le parole stesse di Gesù, il Vangelo è anche una “porta stretta”, un “giogo” leggero, liberante, gioioso se portato al suo seguito. Ma che, al contrario, può diventare pesante, for-se persino insopportabile, se non viene sostenuto dalla coscienza del suo aiuto amorevole e misericordioso. San Paolo, nella sua Lettera ai Romani, ci ha spiegato molto bene questa dinamica: la legge è in sé buona perché, indicandoci ciò che è bene, ci aiuta a mettere a nudo il peccato. Ma, al contempo, se vissuta senza la grazia che Cristo ci dona, si rivela insufficiente (“la legge che doveva servire per la vita è divenuta per me motivo di morte”), perché non ci fornisce i mezzi per vincere il peccato stesso.
Che cos’è dunque questo peccato di cui stiamo parlando? Non è soltanto, almeno nel suo cuore profondo, quella lista più o meno lunga di mancanze, lievi o gravi, con cui ci presentiamo al confessionale. Vedremo che anche questo elenco è importante ma solo in seconda battuta, se così possiamo dire. Il vero peccato, il primo, quello fondamentale, decisivo, è un altro. È il restare chiusi, sordi a quella chiamata all’amore che Dio continuamente rivolge al nostro cuore e che da parte sua è viva, totale, fedele, rinnovata ad ogni istante. Noi, spesso, non vogliamo neanche intenderla oppure, anche quando essa riesce a superare la barriera delle nostre resistenze, riceve da parte nostra una risposta tiepida, sempre attenta a preservare al massimo la nostra tranquillità, i nostri progetti, i nostri desideri. “L’Amore non è amato” andava gridando con commozione profonda Francesco d’Assisi che aveva risposto all’invito divino con una generosità tale da ospitare nel suo corpo le stesse piaghe di Gesù.“L’Amore non è amato”, ecco il grande “peccato”. Questo Amore che ci ha creati, che ci segue uno ad uno ad ogni istante, che si è fatto uomo come noi per esserci più vicino, che ci vuole partecipare fin da ora e per l’eternità la sua stessa vita, non è riconosciuto, non è accolto, non è corrisposto.
Ecco, dunque, anche il vero precetto, quello basilare, quello proclamato da Gesù: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» che riassume e completa tutta la legge. Il precetto dal quale gli altri derivano come ovvia conseguenza. E la trasgressione ad esso, è il pec-cato di sempre, fin dalle origini, ma in particolare di oggi. Di quest’epoca che, orgogliosa delle proprie conquiste, ha capovolto la verità. Di questo tempo che spesso e volentieri adora l’uomo e le sue idee al posto di Dio. Che è convinto di essersi finalmente liberato da un padrone opprimente e che invece non capisce di aver rinunciato a un Padre che dava significato alla sua vita e alla sua morte, a quell’Amore di cui il suo essere ha bisogno come dell’aria che respira. Non riconoscere questo legame imprescindibile tra Creatore e creatura, non avvertire che esso è intessuto di provvidenza, di benevolenza e di misericordia, significa perdere il metro con cui misurare ogni cosa, il qua-dro di fondo a cui fare riferimento. Significa, in una parola, smarrire l’orientamento, perdere la bussola.
Se questo discorso vale per il “mondo”, è tuttavia sempre attualissimo anche per ciascuno di noi che vorremmo es-sere cristiani. La via della conversione è infatti continua e progressiva. Alla prima fase, quella nella quale per la prima volta avvertiamo la presenza di Dio nella nostra vita, ne devono seguire necessariamente molte altre mano a mano che la redenzione opera in noi e che, con l’aiuto della grazia, la nostra coscienza si fa più sottile, più sensibile, più avvertita del nostro limite e della grandezza di colui che ci ha voluto essere Padre.
Per questo i santi si sono sempre considerati dei grandi peccatori e noi invece stentiamo a trovare ciò che non va bene nella nostra vita.
Così, quell’esame di coscienza che ci hanno insegnato a fare fin dalla nostra prima confessione, se è una cosa buona e importantissima perché ci aiuta a confrontare le nostre azioni con l’ideale e a capire i nostri limiti e le nostre mancanze, è tuttavia insufficiente se non avviene sullo sfondo di quanto abbiamo cercato di dire. Se, cioè, non ci aiuta a riflettere che quei “peccati” in cui siamo caduti e che spesso – sempre quelli – ripetiamo sono sì un male in sé, ma anche e soprattutto una risposta insufficiente, spesso meschina, all’amore con cui Dio ci ama. Perché quando pecchiamo non solo trasgrediamo a dei comandamenti, ma ancor prima ci sottraiamo poco o tanto ad un rapporto d’amore, rispondiamo con superficialità, con egoismo ad una offerta che vuole farci penetrare sempre più profondamente nel mistero divino che è anche quello della nostra vera gioia, della nostra autentica salvezza, del riscatto pieno della nostra vita.
Per questo riflettere sui nostri limiti che spesso e volentieri si tramutano in peccati, su questo sfondo dell’amore divino che guarda a noi con bontà e misericordia, non solo non blocca la nostra vita ma, al contrario, la sblocca, la apre indirizzandola sulla strada della vera libertà qual è quella che caratterizza ogni vero rapporto d’amore, tanto più quello con Colui che davvero sa ciò di cui abbiamo bisogno. Perché a quel punto il peccato non ci apparirà più come qualcosa che grava come una pesante condanna sulla nostra esistenza ma, per dirla con Agostino, come una felix culpa, come qualcosa che, proprio svelandoci i nostri limiti, ci consente di riscoprire ogni volta sempre più e sempre meglio le braccia amorevoli di Dio che ci riaccolgono, ci perdonano, ci illuminano sul nostro destino, risvegliandoci al buono e al bello della vita. E ci fanno vivere il nostro avvicinarci al confessionale non come un rito angosciante e faticoso, ma come un gesto serio e impegnato, questo sì, che tuttavia è anche una sorta di festa, un ritorno ogni volta più gioioso alla casa del Padre. È la speranza di sentirsi ripetere quelle parole che Gesù disse alla peccatrice: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato (Lc 7,47)». Così, paradossalmente, sono proprio i nostri peccati che ci consentono di fare esperienza concreta di quell’amore e di quella misericordia senza la quale è impossibile pensare di farsi imitatori di Cristo. Noi cristiani, infatti, non siamo asceti che si propongono di scalare il Cielo con le loro forze. Siamo, invece e solo, umili seguaci di un Uomo-Dio che si è stretto al cuore tutti gli uomini su quella Croce sulla quale è stato innalzato. Che si è assunto, per amore, l’intero peso della loro debolezza perché anch’essi, come lui per primo, potessero alla fine sperimentare la gioia e la luce della Risurrezione.
TIMONE – N.67 – ANNO IX – Novembre 2007 – pag. 56-57