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21.12.2024

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Il Papa e il Concilio
31 Gennaio 2014

Il Papa e il Concilio

 

 

 

Due interpretazioni del Vaticano II, due modi contrapposti di essere nella Chiesa. Un importantissimo discorso di Benedetto XVI del dicembre 2005. Da ricordare come “guida autentica” del pontificato.

 

Due anni fa papa Benedetto XVI pronunciava un discorso di grande importanza. L’occasione erano gli auguri natalizi alla curia romana, il 22 dicembre 2005. Fra i diversi argomenti trattati, emerse subito all’attenzione la parte dedicata al Concilio Vaticano Il e precisamente il giudizio netto e preciso sull’esistenza di due interpretazioni del Vaticano Il, l’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» e quella «della riforma». La prima aveva creato confusione e doveva essere rifiutata, la seconda stava dando silenziosamente buoni frutti, ma era indubbio che a causa della prima la Chiesa aveva attraversato un periodo di grande crisi, dal 1965 al 1968, protrattasi anche nel decennio successivo. Ho già ricordato quel discorso sul Timone (n. 50) ma credo che quelle parole del Magistero possano darci ancora tanti argomenti di riflessione e meritino di essere ricordate periodicamente, come è avvenuto con l’enciclica Rerum novarum del 1891, di papa Leone XIII, che appunto viene celebrata con altri documenti di dottrina sociale in occasione delle ricorrenze più importanti.

 

Intanto va sottolineato un punto centrale e non sempre adeguatamente valutato: alla devastazione prodotta dall’interpretazione del Concilio come «rottura» il Papa contrappone la riforma, non la situazione precedente, quasi che la Chiesa prima del Concilio vivesse in una situazione ottimale e non avesse bisogno di alcuna riforma. Esistono due modi, altrettanto sbagliati in quanto ideologici, di rifiutare la logica della Chiesa, che non crede in un futuro necessariamente migliore ma neppure idealizza il passato, mentre invece cerca di migliorare il presente anche riformando se stessa, per meglio evangelizzare e civilizzare il proprio tempo.
Indubbiamente nel post-Concilio ha prevalso l’errore progressista, che attribuiva alla Chiesa del passato ogni nefandezza, in particolare alla Chiesa tridentina. Ma domani potrebbe diventare di moda l’errore opposto e così saremmo costretti ad assistere alla esaltazione acritica del passato. Con le ideologie, nel corso del Novecento, abbiamo già assistito a questa rappresentazione, con il progressismo dell’illuminismo e poi del comunismo, e al contrario con l’apologia del passato del nazionalsocialismo.
In questo importante discorso, possiamo cogliere alcuni punti che il Pontefice ha voluto affidare alla riflessione della Chiesa.
1. Un Concilio non è paragonabile a un’assemblea costituente che, ha detto il Papa, «elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova» perché il mandante della Chiesa, e dunque di ogni Concilio, è il Signore, e a Lui soltanto i vescovi, in quanto suoi amministratori, dovranno rendere conto.
2. D’altra parte, il Papa insiste molto sulla riforma, di cui il Concilio è stata un’espressione, necessaria in una Chiesa semper reformanda, cioè portatrice di un messaggio di salvezza immutabile nella sua sostanza, ma che deve sempre sforzarsi di far comprendere dall’uomo contemporaneo a cui si rivolge, proprio perché la salvezza si conquista dentro il mpo, così come il mistero dell’Incarnazione ci ha insegnato. Il Papa :orda così i due discorsi del bea, Giovanni XXIII e del servo di Dio Paolo VI con cui iniziò e si concluse il Concilio, dove i Pontefici sottolineavano la volontà della Chiesa rivolgersi con simpatia e usando la «medicina della misericordia» al mondo e all’uomo moderni, senza nessun cedimento dottrinale. Dove questo seme buono è stato gettato, i primi frutti cominciano e vedersi, ha detto Benedetto XVI.
3. Nella terza parte del discorso che sto esaminando, il Papa affronta tre punti che richiedono, oggi, un grande sforzo di riflessione apologetica, alla luce dei grandi cambiamenti che sono avvenuti nei duecento anni dell’epoca moderna, dalla rivoluzione francese nel 1789 alla caduta del Muro di Berlino nel 1989. Il primo punto sul quale Benedetto XVI tira l’attenzione, come invitando gli studiosi cattolici a concentrare i loro sforzi, è il rapporto tra la fede e le scienze moderne, anche quella storica che, con la pretesa di giudicare la Bibbia da parte della scuola del metodo storico-critico, ha determinato un vasto conflitto con l’insegnamento della Chiesa soprattutto nei decenni a cavallo fra l’800 e 900.
Un altro punto riguarda il rapporto fra la Chiesa e lo Stato nell’epoca moderna, ancora incapace di trovare un accordo di vera collaborazione nel rispetto del diritto del cittadini di scegliere liberamente e di poter professare pubblicamente la religione scelta, senza le pretese dello Stato di confinare quest’ultima nel privato delle coscienze, che è la soluzione del laicismo.
Infine, un terzo punto riguarda il rapporto tra la fede cattolica e le altre religioni, in particolare quella di Israele.
Su questi tre punti ricordati dal Pontefice, il Vaticano II è intervenuto con chiarezza, e le forme di discontinuità che sono apparse rispetto al passato, dovute alle mutate circostanze storiche e alle loro esigenze, devono essere lette nella sostanziale continuità dei principi. Tale continuità, afferma il Papa, spesso è sfuggita ai commentatori e questa è una delle principali cause dei problemi della Chiesa postconciliare, perché «è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare».
4. E così il Papa conclude portando l’esempio concreto della libertà religiosa, forse il più contestato dei documenti conciliari da parte della minoranza “tradizionalista”, che teme di veder negata l’unicità salvifica del sacrificio di Cristo. Se così fosse, dice Benedetto XVI, se per libertà religiosa si dovesse intendere l’incapacità dell’uomo di conoscere la verità, allora la critica avrebbe ragione, ma se per libertà religiosa s’intende una necessità della convivenza umana che deriva dal fatto che la religione non può essere mai imposta, allora ci si rende conto che questa dottrina contenuta nel decreto del Vaticano Il sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae) non fa altro che affermare l’insegnamento di Gesù (Mt 22,21) e della Chiesa dei martiri e offrire di conseguenza allo Stato moderno una soluzione di un grave problema politico rispettosa della dignità della persona e dei diritti di Dio.

Ricorda

 

«Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all’età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l”’apertura verso il mondo” cosi realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell’uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell’uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente».
(Benedetto XVI, Discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005).

Bibliografia

 

Il discorso di papa Benedetto XVI alla curia romana è stato pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana in un piccolo fascicolo, facilmente diffondibile anche per il prezzo assai contenuto.
Il discorso Gaudet mater ecclesia nella solenne apertura del Concilio del beato Giovanni XXIII dell’11 ottobre 1962 e l’omelia Hodie concilium di Paolo VI del 7 dicembre 1965 si possono leggere in Enchiridion vaticanum. 1 Documenti ufficiali del Concilio Vaticano II, 1962-1965, EDB, 1993, pp. 33-55 e 294-311; entrambi sono citati da Benedetto XVI come espressione dell’«ermeneutica della riforma».

IL TIMONE – N.68 – ANNO IX – Dicembre 2007 pag. 58-59

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