La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani contro l’esposizione del Crocifisso nei luoghi pubblici è figlia del nichilismo dominante in Europa. Il quale però trova terreno fertile nel sentire di parte del mondo cattolico che lo riduce a simbolo generico di amore o sofferenza
Se qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi sull’aria nichilista che tira in Europa, la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani dello scorso 3 novembre che vieta l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici dovrebbe averli fugati. La sentenza – che corona la battaglia iniziata sette anni fa al Tar del Veneto da una signora di origine finlandese sposata con un militante radicale – pretende di interpretare correttamente gli articoli della Convenzione Europea sui diritti umani dedicati a libertà religiosa e diritto dei genitori a educare i propri figli.
Si potrebbe pensare che i giudici della Corte Europea credano fermamente nella libertà di religione e nel diritto alla libertà di educazione, ma non è così. Tanto è vero che la Corte non si è mai pronunciata contro i Paesi europei che finanziano soltanto le scuole statali o non garantiscono la presenza di scuole dirette da enti privati. In compenso ha proibito la pubblicità di presepi natalizi sulle linee aeree irlandesi. Ciò che questa istituzione europea realmente persegue, al pari di altre istituzione sovra-nazionali, è molto semplicemente la libertà “dalla” religione.
E poco conta che la Corte in questione non sia un organo dell’Unione Europea e che non vada quindi confusa con la Corte di Giustizia europea. È infatti il “braccio” del Consiglio d’Europa, ovvero di quella istituzione che comprende ben 47 Paesi europei e le cui decisioni hanno una valenza molto minore per i singoli Stati. Ma in materia di diritti umani c’è una breccia che potrebbe rendere la sentenza del 3 novembre molto più grave di quanto non si pensi.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, allegata al Trattato di Lisbona, all’articolo 52.3 afferma infatti che «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (quella cui fa riferimento la sentenza sul crocifisso, ndr), il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione». Vale a dire, che ciò che stabilisce la Corte Europea dei Diritti Umani in termini di interpretazione delle singole norme viene automaticamente recepito dalla Corte di Giustizia europea, organo della UE. Nella fattispecie, la sentenza del crocifisso interpreterebbe gli articoli 10 e 14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dedicati rispettivamente alla libertà di religione e alla libertà di educazione. Se il ricorso del governo italiano contro la sentenza della Corte Europea non andrà a buon fine, dunque, l’esito probabile è una pioggia di ricorsi nei tribunali europei che dal crocifisso si allargheranno a ogni tipo di manifestazione di visibilità cristiana.
Un aspetto da sottolineare è che questa ostilità delle élites europee al cristianesimo – ma soprattutto al cattolicesimo – rappresenta una novità perché si esprime principalmente attraverso la negazione della storia della stessa Europa. Per capire la questione, basta ricordare che l’ordine di esposizione del crocifisso nelle scuole risale non già al Concordato – come molti “autorevoli” intellettuali hanno erroneamente ripetuto in questo periodo – ma alla Legge Casati del 1859, che rappresenta una riforma radicale del sistema scolastico italiano. Quella disposizione, confermata da altri regi decreti nel 1908, 1924 e 1928, verrà poi allargata a tutti gli uffici pubblici con una ordinanza ministeriale nel 1923.
I Patti Lateranensi, firmati nel 1929 e rivisti nel 1984, invece non menzionano neanche la questione. Insomma, la decisione sui crocifissi è tutta dello Stato Sabaudo, certamente non sospetto di simpatie nei confronti della Chiesa; decisione presa oltretutto in un momento di gravi tensioni con il Papato, visto che nel 1859 a Roma c’era ancora lo Stato Pontificio e che nel 1870 la capitale verrà presa con la forza. Eppure, anche uno Stato così chiaramente anti-cattolico non può non riconoscere che il crocifisso (e non la generica croce) è il simbolo che rappresenta l’identità del popolo italiano; è l’elemento che unifica un popolo altrimenti diviso culturalmente e politicamente per il secolare spezzettamento del Paese in regni, granducati, dominazioni varie. Per questo il crocifisso entra nell’arredo delle aule insieme alla bandiera e al ritratto del re. È così chiara questa verità storica che lo Statuto Albertino del 1848, ovvero la Costituzione dello Stato dei Savoia, all’articolo 1 prevede la religione “cattolica, apostolica, Romana” quale religione di Stato; e che la già citata Legge Casati prevede l’obbligatorietà dell’ora di religione, con annesso esame finale il cui giudice è il parroco.
Dunque, l’odierno tentativo di eliminare il Crocifisso dai luoghi pubblici appare essenzialmente il frutto di quel nichilismo diventato cultura dominante in Europa, segno di una civiltà smaniosa di scomparire.
Questo excursus storico ci permette anche un’ultima riflessione. Nel tentativo di giustificare la presenza del Crocifisso negli edifici pubblici abbiamo sentito e letto molte descrizioni del significato del Crocifisso: simbolo dell’amore, o della sofferenza o anche del desiderio di giustizia e riscatto di un’umanità sofferente. Un simbolo universale, insomma, in cui tutti – per un motivo o per l’altro – si possono riconoscere. Tali interpretazioni in realtà sono soggettive e – come abbiamo visto – non hanno niente a che vedere con il motivo per cui l’esposizione del Crocifisso è stata decisa. Sono peraltro interpretazioni che, seppur positive e degne del massimo rispetto quando provengono da persone e settori lontani dalla fede, diventano pericolose e inquietanti quando sono formulate da autorevoli esponenti cattolici.
A costoro andrebbe ricordato che l’identità del popolo italiano non nasce da un “sentimento universale” senza tempo, ma dall’incontro ben preciso di alcune persone con Gesù Cristo avvenuto “nel tempo” e che a sua volta ha generato una storia oggi testimoniata da chiese, opere architettoniche, città, dipinti, sculture, letteratura, diritto, istituzioni politiche, economiche, educative e sanitarie, e così via. Questa storia si è affermata ed è cresciuta attraverso vicende non sempre lineari, anzi spesso contorte e dolorose, grazie anche al sacrificio di tanti uomini di fede fino all’effusione del sangue.
Il Crocifisso appeso negli edifici pubblici rappresenta perciò qualcosa di molto concreto, fatto di carne; non lascia spazio a sentimentalismi e intimismi vari. Non rappresenta qualcosa in cui tutti possono riconoscersi, ma certamente Qualcuno con cui tutti devono confrontarsi. Qualcuno che ha preteso di essere il Salvatore di ogni uomo.
Dimenticarsi questo vuol dire avere già cancellato il Crocifisso dal proprio cuore prima ancora che qualche giudice decida di rimuoverlo dai muri.
RICORDA
«È una sentenza chiaramente ideologica che non rispetta la verità delle cose e la verità della storia della nostra Europa e della nostra Italia, che nasce proprio dalla ispirazione del Vangelo dal punto di vista anche culturale, sociale, umanistico.
Non accetta che il segno del crocifisso sia per il credente un segno della propria fede e per i non credenti il segno dell’umanesimo integrale che ha la propria radice nel Vangelo».
(Cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, 4 novembre 2009).
IL TIMONE N. 88 – ANNO XI – Dicembre 2009 – pag. 18 – 19