Artefice della prima evangelizzazione dell’Europa, Gregorio Magno sarà anche un Pontefice importante per la vita interna della Chiesa e per la costruzione della civiltà cristiana occidentale
Nell’anno 595 papa Gregorio Magno (540 ca-604) scriveva all’imperatore d’Oriente, Maurizio: «Le città sono distrutte, le rocche spianate, le terre spopolate ». Il Pontefice lamentava la fine di un mondo – del suo mondo – già colto e fiorente, che sembrava destinato a soccombere sotto i colpi delle giovani nazioni barbare.
Quando era ancora diacono, Gregorio aveva trascorso sette anni a Bisanzio come apocrisario (una sorta di ambasciatore) della Chiesa di Roma, implorando inutilmente un aiuto militare contro i Longobardi, i quali da due decenni si erano impadroniti delle fertili contrade italiche e vi avevano seminato rovina e morte.
Attento osservatore, aveva acutamente compreso che erano in atto profondi mutamenti storici. A fronte dell’incalzare dei nuovi popoli le province italiane e occidentali erano di fatto abbandonate a se stesse. L’autorità, il prestigio, il potere che la Chiesa romana aveva acquisito dai tempi dell’imperatore Costantino (274-337) erano, in quel difficile scorcio del VI secolo, rimessi in discussione e quasi dissolti.
Gregorio era stato eletto vescovo di Roma nell’anno 590. Proveniva dalla nobile gens Anicia ed era stato prefetto dell’Urbe; quello era il suo mondo, con le sue tradizioni e i suoi valori. Compiuti i trentacinque anni aveva preferito ritirarsi e farsi monaco; ma la Chiesa di Roma l’aveva tratto dalla solitudine che amava. Da Papa – preso atto della latitanza dell’autorità imperiale – fu costretto a occuparsi delle questioni amministrative che riguardavano la vita della sua città; avvalendosi della sua precedente esperienza di governo, perseguì una gestione oculata delle proprietà della Chiesa (cospicue in Sicilia e in Campania, ma diffuse anche in Dalmazia, Gallia e Africa) che costituivano il Patrimonio di San Pietro. Tenace di fronte alle avversità e largamente generoso, convinto – come testimonia in molti suoi scritti – che l’elemosina è un’opera di giustizia, una ridistribuzione di beni che sono di tutti gli uomini, diede fondo anche alle ricchezze personali per far fronte alla carestia e alla pestilenza che devastarono Roma.
Quasi scomparse le aristocrazie senatoriali e i ceti dirigenti, consapevole della grande debolezza del potere politico, Gregorio si trovò dunque a svolgere – al pari di altri vescovi del suo tempo – un’opera di supplenza amministrativa e politica, in un’azione densa di carità e assai efficace. Al tempo dell’aggressione longobarda, organizzò le difese della città, preferendo poi, senza tradire la lealtà verso l’imperatore, trattare con i nemici e pagare un annuale e pesante tributo in oro, pur di salvare Roma dal saccheggio. La sua attenzione di pastore lo portò a stringere delicati rapporti epistolari con Teodolinda, regina dei Longobardi († 627), e a favorire l’inizio di un cammino di conversione per quel popolo. Densi e frequenti furono anche gli scambi di lettere con i re dei Franchi e dei Visigoti.
Inviò una missione di monaci guidati da Agostino, priore di un monastero romano, nella remota terra degli Angli a evangelizzare la Britannia e rivivificare l’antica Chiesa celtica. Gli esiti non erano scontati, ma le conversioni, sempre più numerose, non mancarono: dopo cinque anni Agostino venne nominato arcivescovo con sede a Canterbury e venne fondata la diocesi di York.
Si è spesso scritto a questo proposito di una raffinata e scaltra azione politica, di un Gregorio consul Dei, teso ad affermare la guida della Chiesa romana su un Occidente ormai sfuggito al controllo della corte di Bisanzio, quasi costruttore di un’Europa romana e cristiana. Lo confermerebbero le decine di epistole indirizzate ai sovrani del suo tempo e l’ampia prospettiva della sua azione. Si tratta però di una lettura dai tratti eccessivamente modernizzanti. Ciò che animava l’azione del Pontefice – un agire impolitico se si pensa che la nazione degli Angli era una terra remota posta ai margini del mondo conosciuto, una sorta di terra di nessuno – ciò che ne alimentava disegni e progetti era soprattutto un’autentica ansia missionaria, il desiderio profondo e inesauribile che a ogni uomo fosse data l’occasione della salvezza.
Gregorio amava costruire dal basso, con materiali poveri e senza clamore; si rivolgeva con amore al suo popolo, un popolo di poveri e di straccioni, una plebe ignorante, a donne e bambini, che non contavano nulla, e persino ai barbari, tra i quali non potevano non esserci uomini buoni: il popolo che Dio gli aveva affidato e al quale doveva recare soccorso e guida. Lo si nota in alcuni dei suoi scritti più famosi, i Dialoghi che – prima di dedicare molte pagine alla figura di Benedetto da Norcia (480 ca-547 ca.) – iniziano dalle vicende di Onorato, un colono ignorante. È un convincimento che si ritrova nei Sermones nei quali compare Servolo, un paralitico «povero di sostanze ma ricco di meriti», un analfabeta che si era comperato i libri della Bibbia e se li faceva leggere.
Sapeva che la prima radice dell’autorità della Chiesa stava nel servizio, così quando il patriarca di Costantinopoli Giovanni cominciò a utilizzare nei documenti la qualifica di patriarca ecumenico, egli riprese la formula di “servo dei servi di Dio” (servus servorum Dei), che poi divenne usuale presso molti dei suoi successori.
Da pastore si rivolse con sollecitudine al suo clero e nella Regula pastoralis ricordò che la predicazione efficace è quella che narra fatti e non quella scintillante di risorse retoriche; raccomandò un quotidiano esame di coscienza al chiudersi di una giornata. Nei suoi scritti, assai noti alla successiva tradizione liturgica (a lui si fa impropriamente risalire anche il cosiddetto canto gregoriano), si soffermò sul Cristo dei vangeli, Dio di speranza, meditò le verità di un catechismo elementare ma efficace, parlò spesso al cuore dei sofferenti.
Dominato da un carattere incline alla malinconia – in un ricorrente ritratto di maniera lo si descrive come un uomo troppo piccolo alle prese con troppi e troppo grandi problemi – Gregorio ebbe il coraggio di non fuggire, di non ricercare la spesso rimpianta via del monastero; trovò invece la forza di restare al suo posto, di vivere ciò che gli era chiesto confidando in Dio. Credeva infatti che il vero sostegno di ogni uomo non fosse il fuggire in luoghi nascosti o cercare rifugi sicuri, ma affidarsi a colui che salva, al vero padrone della «vigna che si chiama Chiesa universale», ricordando più volte che «ciò che non fanno gli uomini nella loro pochezza» lo fa Dio «che non abbandona il suo gregge anche se noi siamo negligenti ».
Nelle sue lettere si ritrovano anche espressioni dure, esortazioni a procedere con forza, quasi con violenza alla conversione dei pagani, come scrive a sant’Etelberto, Re di Kent (552 ca-616), ricordando l’opera di Costantino, imperator piissimus, o come quando evoca il simbolo del rinoceronte, in età pagana utilizzato per schiacciare i martiri cristiani e ora da volgere invece contro i pagani.
Affermazioni forse eccessive, ma temperate da più cauti suggerimenti, come quando sollecita a sostituire gli idola con reliquie, ma sempre con pazienza e gradualità, «perché chi vuole scalare un’alta cima non sale a sbalzi, ma passo dopo passo».
E tuttavia la grande opera di Gregorio, quasi uno spartiacque tra tempi diversi, non fu subito compresa; agli occhi dei suoi contemporanei, molte sue affermazioni, molte sue scelte non furono lette nel loro più profondo significato: il Liber pontificalis, il libro che narra le gesta dei pontefici romani, non gli concede uno spazio di rilievo. Forse troppo sottile, o troppo complessa, la lezione che lasciava in eredità all’Occidente.
Solo nella piena età medievale i posteri ne riconosceranno la statura morale e intellettuale e lo chiameranno Magno.
BIBLIOGRAFIA
Storia dei papi, a c. di M. Greschat-E. Guerriero, San Paolo, 1994.
Giorgio Cracco, Alle origini dell’Europa cristiana: Gregorio Magno, in Il Papato e l’Europa, a c. di G. De Rosa e G. Cracco, Rubbettino, 2001, pp. 13-49.
IL TIMONE N. 97 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 28 – 29