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22.12.2024

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Globalizzazione della solidarietà
31 Gennaio 2014

Globalizzazione della solidarietà

 

“G8” e “popolo di Seattle”: due facce della stessa medaglia. Entrambi riducono la globalizzazione a puro fatto economico. Dimenticandosi dell’uomo. La vera alternativa? Le proposte della Chiesa.

Con i Paesi ricchi o con il “popolo di Seattle”? Con i governi che hanno in mano le redini dell’economia mondiale o con i movimenti anti-globalizzazione che vi si contrappongono, spesso affermando le proprie idee con la violenza? Il G-8 (i sette Paesi più industrializzati a cui si aggiunge la Russia) di Genova sembra porre ancora una volta questa drammatica alternativa. Drammatica soprattutto perché pare che non ci sia scampo alla violenza: o quella dei “grandi” dell’economia o quella dei gruppi e dei movimenti di base che dal vertice di Seattle di tre anni fa (da qui il nome di “popolo di Seattle”) in poi non ha fatto altro che portare scontri e guerriglia urbana in tutte le città del mondo dove si svolge un qualche vertice economico e finanziario. In realtà di globalizzazione si parla molto ma si fa anche molta confusione. Proviamo allora a mettere alcuni punti fermi. La globalizzazione, come dice Giovanni Paolo II nella Esortazione apostolica “Ecclesia in America” (1999), è “un processo reso inevitabile dalle crescenti comunicazioni tra le diverse parti del mondo, che porta in pratica a superare le distanze, con effetti evidenti in moltissimi campi diversi”. In sé perciò la globalizzazione non è né positiva né negativa: è semplicemente un fenomeno inevitabile. A dire il vero già molto tempo prima che la parola globalizzazione divenisse famosa, la Chiesa aveva indicato con chiarezza la tendenza in atto, ma usava – non a caso – un altro termine: interdipendenza. Se ne parla già nel Concilio Vaticano II, ma il termine diventerà familiare soprattutto con Giovanni Paolo II che sviluppa il concetto in diverse occasioni, specie con l’enciclica “Sollicitudo Rei Socialis” (1987). Indubbiamente però la parola “interdipendenza” esprime lo stesso fenomeno in un modo più corretto, perché descrive – e auspica – una crescente reciproca dipendenza di Paesi e popoli, che hanno perciò pari dignità e responsabilità e soprattutto sono rispettati ognuno nella propria identità. Il termine globalizzazione invece fa venire in mente una sorta di marmellata planetaria in cui si perde la visibilità di ciascun componente mentre tutto prende il sapore e l’aspetto del componente principale. Tradotto in termini politici: già nel termine si intravvede il rischio di una omologazione di culture ed economie a vantaggio del più forte, ovvero della cultura e dell’economia trainante. Da qui un’istintiva, comprensibile, diffidenza di chi sa di essere debole. In ogni caso, essendo oggi il termine “globalizzazione” usato universalmente, da questo non si può prescindere. Piuttosto l’attenzione si deve spostare sui contenuti. La globalizzazione infatti è anzitutto una grande opportunità, perché porta con sé enormi possibilità di scambi culturali e capacità e mezzi per soddisfare rapidamente i bisogni dell’intera umanità. Ad esempio, oggi per la prima volta nella storia del mondo si hanno a disposizione tutti i mezzi e tutte le conoscenze per risolvere i più gravi problemi che ancora affliggono larghi strati della popolazione mondiale: fame e malattie anzitutto. Eppure questo non accade, anzi: tutti i grandi piani di lotta contro la povertà, varati dalle Nazioni Unite, falliscono uno dopo l’altro e tuttoggi vi sono 800 milioni di persone nel mondo che sono malnutrite o alla fame. E i Paesi catalogati come “meno sviluppati”, in 30 anni sono praticamente raddoppiati (da 25 a 49). Segno che qualcosa non va.
II primo limite (che accomuna fautori e detrattori) è nella riduzione del fenomeno della globalizzazione a puro fatto economico, dopodiché il dibattito diventa tra sostenitori della legge del mercato e dell’economia pianificata. In questo un esempio è dato proprio dalla contrapposizione tra i G-8 e il “popolo di Seattle”, che ad ogni buon conto sono due facce della stessa medaglia. Non per niente il movimento anti-globalizzazione è guidato e principalmente composto da organizzazioni occidentali orfane del marxismo-leninismo (seppure in diversi modi). Ciò che resta fuori è invece quello che dovrebbe essere il punto centrale, ovvero la persona umana. Il bene comune si misura proprio con il servizio alla persona umana. Per questo la prima preoccupazione che tutti dovrebbero avere è la solidarietà (la Chiesa parla recentemente di “globalizzazione della solidarietà). Non nel senso dell’assistenzialismo – che rende la persona dipendente dal “benefattore” -, ma nel senso di mettere in grado ogni persona di sfruttare le proprie capacità per rispondere ai propri bisogni. Si comprende perciò la grande insistenza della Chiesa sulla necessità di cancellare il debito estero dei Paesi in via di sviluppo, che da ormai venti anni spendono più in interessi da pagare che in progetti per alleviare la povertà. In questo modo si impedisce che le già poche risorse di questi Paesi servano a migliorare la vita della popolazione. Ma più in generale, educazione, assistenza sanitaria e un lavoro dignitoso sono le prime cose che in un mondo globale devono circolare, i pilastri su cui costruire l’intero edificio. Non sono parole o pie intenzioni, questa è la secolare esperienza della Chiesa che, ad esempio, in ogni Paese di missione ha sempre portato scuole e ospedali come naturale conseguenza dell’attenzione alla persona umana che nasce dall’annuncio di Cristo. Nella lotta tra G-8 e “popolo di Seattle” dunque non c’è bisogno di schierarsi per l’uno o per l’altro. L’unica consapevolezza che abbiamo è che il massimo contributo che possiamo dare al processo di globalizzazione è l’annuncio del Vangelo.

RICORDA

“La Chiesa sa bene che nessuna realizzazione temporale s’identifica col Regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo senso, anticipare la gloria del Regno, che attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma l’attesa non potrà esser mai una scusa per disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vita sociale, nazionale e internazionale in quanto questa – ora soprattutto – condiziona quella”.
(Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Sollecitudo Rei Socialis, n. 48, Città del Vaticano 1987).

 


IL TIMONE N. 14 – ANNO III – Luglio/Agosto 2001 – pag. 16-17

 

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