Nel mondo antico, gli schiavi erano alla mercé dei loro padroni, che potevano farne ciò che volevano. Roma si distinse per la capacità di integrarli nella propria cittadinanza, mutandone lo stato: da «cose» a esseri umani. Ma la critica definitiva alla schiavitù avverrà solo grazie al cristianesimo.
La schiavitù era ampiamente diffusa nel mondo antico. All'origine di essa vi erano molteplici cause: a Sparta, una parte della popolazione, gli iloti, viveva stabilmente in uno stato di servitù dal quale non poteva affrancarsi;
presso alcuni popoli asserviti gli schiavi erano legati alla terra che coltivavano (una specie di servitù della gleba). Ma la stragrande maggioranza degli schiavi era costituita dai prigionieri di guerra, considerati la parte più cospicua del bottino; tale forma di schiavitù e del commercio connesso divenne stabile almeno dall'VIII secolo a.C. e fino alla tarda antichità. Altre cause di schiavitù, presenti soprattutto nel mondo romano, erano l'insolvenza dei debiti, la punizione inflitta dai Romani ai popoli che avevano dato loro filo da torcere (che venivano dichiarati venales cum agris suis, cioè in vendita insieme alla loro terra); infine, come effetto delle condanne a vita, associate al lavoro di estrazione nelle miniere (condanne ad metalla).
Quanto più si risale indietro nel tempo, tanto maggiore è la massa di uomini che non godevano pienamente della loro libertà e che si possono considerare, in maniera diversa ma sostanzialmente comparabile, degli schiavi. Così avviene già in età micenea, come leggiamo nell'Iliade e nell'Odissea.
Agli schiavi non era riconosciuto alcun diritto, né umano né tantomeno personale (prassi comune a tutti i popoli del mondo antico). A Roma, tuttavia, esisteva un «diritto degli schiavi», un complesso di norme che avevano per oggetto gli schiavi.
Sulla natura della schiavitù Greci e Romani avevano un pensiero diverso.
Per i primi, il problema era soprattutto teorico: un uomo nasce libero, perché la natura non rende schiavo nessuno, ma Platone, nel IV secolo a.C., ritiene invece che la schiavitù sia una condizione obbligata per coloro che non riescono a far prevalere il dominio dello spirito sulla propria componente ferina, e per Aristotele la servitù è addirittura un bene per gli stessi schiavi. I Greci consideravano barbari tutti coloro che non condividevano i loro stessi valori, in particolare quelli della polis, fra i quali spiccava la libertà; per questa ragione, barbari e schiavi erano considerati alla stessa stregua, perché i barbari avevano scelto la schiavitù come forma di vita. Se i barbari sono schiavi per natura, la schiavitù è, sul piano teorico, un fatto «etnico» e «naturale». Questa posizione fu parzialmente superata dopo la conquista di Alessandro, che favorì l'unione fra Greci e barbari, coerentemente col suo disegno ecumenico. Superato il contrasto fra Greci e barbari si diffonde l'idea di uguaglianza, naturalmente solo sul piano naturale.
Il pensiero dei Romani sulla schiavitù non si discosta nella sostanza da quello degli altri popoli. Tuttavia, per Seneca, esponente della filosofia stoica, la più vicina allo spirito romano, l'uomo nasce per natura libero e la schiavitù è contro il diritto naturale; questa posizione, però, che si può definire egualitaristica, nasce in un secondo momento: infatti, i Romani ricorsero molto ampiamente alla manodopera servi le. Ma sebbene la storia ed i costumi di Roma siano strettamente legati ai costumi etruschi e greci, era assai diverso il destino che poteva toccare agli schiavi. Comprati nei mercati del Mediterraneo orientale (famoso era il mercato dell'isola di Delo), oppure trascinati a Roma per rendere più fastosa la cerimonia del trionfo del vincitore, essi erano avviati a svolgere diverse mansioni: i più colti diventavano precettori dei giovani romani di nobili famiglie, altri potevano diventare contabili, soprintendenti, responsabili della conduzione di imprese; i più forti e meno istruiti erano utilizzati in lavori pesanti, e spesso venivano incatenati per impedire che fuggissero o che si ribellassero. I più fortunati trovavano una nuova famiglia nella quale conducevano una vita quasi normale. Ma, tutti indistintamente, gli schiavi erano considerati cose (res) e come tali erano alla mercé dei loro padroni (domim) che potevano farne, letteralmente, ciò che volevano. AI tempo di Augusto, per limitare l'arbitrio dei padroni sui servi furono introdotte delle limitazioni a tutela della vita e della dignità umana dei servi.
Molti di loro, i più forti e robusti, venivano avviati alla «professione» di gladiatore, che migliorava la loro condizione ma era anche una scommessa sulla vita. Soltanto pochissimi, dopo aver sostenuto decine di combattimenti, riuscivano ad arrivare vivi al momento della liberazione. Proprio i gladiatori, guidati da un abile condottiero di nome Spartaco, sono all'origine della sanguinosa guerra che mise in pericolo la sopravvivenza di Roma. Migliaia di servi, gladiatori e non, condussero per tre anni, nell'Italia centrale e meridionale, dove il latifondo aveva richiesto un numero elevatissimo di schiavi per lavorare la terra, una lotta durissima, domata con fatica da Pompeo (70 a.C.). Ma comunque si giudichi la posizione romana, ciò che distinse Roma da tutti gli altri popoli dell'antichità fu la disponibilità e la capacità di integrare e quindi di accogliere nella propria cittadinanza gli schiavi, mutandone lo stato: molti servi, naturalmente i migliori e più capaci e affidabili (le ragioni per cui venivano liberati potevano essere varie:
interesse, gratitudine, affetto, ma anche ragioni politiche, urgenza di reclutamento militare, delazione), mutarono così il loro stato da «cose» a esseri umani, e la loro liberazione assumeva la connotazione quasi di una generazione naturale: infatti, i servi liberati assumevano il prenome e il nome dei loro ex-padroni, dei quali diventavano «clienti». I servi, divenuti così liberti, non soltanto godevano della libertà ma diventavano cittadini romani a tutti gli effetti (alla fine del III secolo a.C., uno di loro, liberto di Appio Claudio, divenne addirittura magistrato). A liberti e liberte, ed anche ai servi, erano spesso riservati spazi nella sepoltura comune col padrone di casa ed i suoi familiari.
Attraverso i nomi possiamo riconoscere l'origine servile di molte persone, soprattutto attraverso le iscrizioni funerarie, poiché i Iiberti portavano come cognome il loro antico nome, che, il più delle volte, era greco essendo molti schiavi provenienti da territori dove si parlava greco. Tuttavia, nell'arco di una o due generazioni anche questo elemento rivelatore dell'origine servile veniva cancellato e le generazioni successive si integravano anche sotto questo aspetto.
Un documento significativo sulla condizione servile al tempo del Cristianesimo nascente e sul riconoscimento, grazie alla fede cristiana, della condizione personale di ogni essere umano, è rappresentato dalla Lettera di San Paolo a Filemone, che accompagnava la restituzione di un servo, Onesimo (il nome, di origine greca, significa «utile»), che era fuggito dalla casa di Filemone e che Paolo aveva tenuto presso di sé. Entrambi, servo e padrone, avevano in comune la fede cristiana. Nel rinviarlo a Filemone, Paolo, che non poteva infrangere in un colpo solo il diritto di proprietà di Filemone su Onesimo, dice testualmente «[…] avrei voluto trattenerlo [Onesimo] presso di me […] ma senza il tuo parere non ho voluto fare nulla, affinché il tuo beneficio non sia fatto per necessità ma spontaneamente. […] possa [tu] riceverlo per sempre, ma non più come uno schiavo, ma molto di più che come uno schiavo, come un fratello amato, moltissimo da me e quanto più per te, sia nella carne, sia nel Signore».
«Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
(San Paolo, Lettera ai Galati 3, 28).
BIBLIOGRAFIA
Olis Robleda, Il diritto degli schiavi nell'antica Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1976.
Georges Fabre, Libertus: recherches sur les rapports patron-affranchi à la fin de la République romaine, Collection de l'Ecole Française de Rome, 1981.
Marta Sordi, Paolo a Filemone o «Della schiavitù», Jaca Book, 1987 (di imminente ristampa).
IL TIMONE N. 86 – ANNO XI – Settembre/Ottobre 2009 – pag. 28 – 29