Nel testo del filosofo Giulio Giorello è palese la radice individualista e libertaria, espressa nel rifiuto di ogni autorità, anche della verità. Ma ogni uomo, in realtà, è credente. Se non in Dio, in qualcosa d’altro
Quando i giudizi, e quindi la cultura, sono coerenti si sviluppano a partire dalle premesse da cui parte la ragione. Le premesse possono essere solo due: o la ragione, aprendosi alla domanda sull’origine della realtà, considera anche la possibilità di una causa trascendente, cioè di Dio, oppure la esclude a priori. Il cosiddetto ateismo metodologico consiste nel vietare alla ragione di porre l’ipotesi di Dio. Tale esclusione programmatica, che di fatto implica una mutilazione della ragione, si presenta oggi col volto accattivante di un “nuovo illuminismo” che maschera la volontà di generalizzare e di imporre un integralismo razionalista antireligioso.
La sfida lanciata da tale “nuovo Illuminismo” consiste nel progetto di vivere senza Dio; a questa sfida Benedetto XVI ha più volte replicato con la tesi di un Illuminismo capace di allargare i confini della ragione, pensando e vivendo «come se Dio ci fosse».
L’ateismo metodologico ha trovato un interprete nel filosofo della scienza Giulio Giorello. Dall’«ateo pro- Giorello: vivere senza Dio… Nel testo del filosofo Giulio Giorello è palese la radice individualista e libertaria, espressa nel rifiuto di ogni autorità, anche della verità. Ma ogni uomo, in realtà, è credente. Se non in Dio, in qualcosa d’altro testante» Giorello, come egli stesso ama definirsi nel saggio Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo, giunge la proposta di assumere l’«etsi Deus non daretur» (come se Dio non ci fosse) anche a chi ha concezioni teiste, perché l’ateismo non è «una rete di dogmi (simmetrici a quelli di qualsiasi teismo), ma un repertorio di strumenti, intellettuali e pratici, che riguardano il nostro modo di indagare l’universo e di scegliere il nostro destino». All’ateismo dottrinale, che propone come verità l’inesistenza di Dio, esponendosi così alla critica di dogmatismo e all’onere della prova, e all’agnosticismo, che sospende il giudizio, condannandosi, se è coerente, all’immobilismo e all’inefficacia civile, Giorello contrappone non «una dottrina definita, ma un complesso di atteggiamenti, alcuni dei quali mi paiono più efficaci della mera sospensione del giudizio».
La proposta di Giorello è esposta in cinque capitoli («contro la reverenza », «contro la rassegnazione», «contro l’autorità», «contro la proibizione», «contro la sottomissione»), compresi tra un Prologo e un Epilogo del suo testo, i cui titoli rivelano la radice individualista e libertaria espressa nel rifiuto di ogni autorità, anche, forse soprattutto, dell’autorità della verità. Si tratta per Giorello di pensare e vivere secondo cinque atteggiamenti legati dal rifiuto di riconoscere qualsiasi differenza di valore e qualsiasi dipendenza, sia nella sfera dell’essere che nella sfera dell’agire.
La scelta di legare le proprie argomentazioni a un’atteggiamento della volontà (piuttosto che a un’evidenza di ragione) determina un carattere disorganico che impronta la riflessione di Giorello, in cui fatti e argomenti si susseguono e si sommano senza contestualizzazione filosofica e storica, dunque senza dare al lettore una possibilità seria di confrontarsi col loro contenuto di verità. Anche il capitolo dedicato ad esaminare le prove dell’esistenza di Dio, considerate dall’autore come “modelli” di sottomissione, elude la questione del fondamento della realtà, preferendo ricordare che «in filosofia non s’impone un bel nulla e che un filosofo degno di questo nome non accetta imposizioni, e non si sogna di farne agli altri»; inoltre, Giorello sostiene che «La forza dello spirito, per l’ateismo, non sta nel dimostrare che Dio non c’è, bensì nel rifiuto di riconoscerlo come un padrone: Non serviam, come dice Stephen Dedalus nell’Ulisse di Joyce » (p. 178).
Gli argomenti della teologia razionale (e nel testo risalta l’assenza delle cinque vie tomiste, le cinque dimostrazione dell’Aquinate), affrontati in modo rapsodico e principalmente attraverso la critica delle devianze delle religioni (vere o supposte), vengono liquidati appunto come «prove» di sottomissione. Al termine delle riflessioni dedicate all’argomento pascaliano della “scommessa”, Giorello conclude: «A parte lo stile (magnifico), il discorso di Pascal non mi piace né mi pare stringente. Ma sento per lui gratitudine: ho trovato (grazie a un cattolico) la risposta al problema che ponevo nel Prologo: ateismo per me ora vuol dire niente abbassamento». La vera anima dell’ateismo metodologico si rivela essere l’individualismo libertario, assunto come criterio di giudizio e di vita; infatti, nell’Epilogo, Giorello si compiace di paragonare, con un po’ di romanticismo, la posizione dell’ateo “protestante”, irriverente e non rassegnato a quella del ronin, il samurai rimasto senza signore: a differenza dei guerrieri per cui aver perso il padrone costituiva un disonore, per il ronin ciò sarebbe l’occasione di dispiegare con audacia la propria autonomia. A Benedetto XVI che nella Caritas in veritate ricorda che il vero senso della libertà «non consiste nell’ebrezza di una totale autonomia, ma nella risposta a un appello dell’essere», l’ateo protestante Giorello ribatte: «E se preferissimo restare “ebbri”? Siamo stanchi dei vari Pastori dell’Essere».
Nonostante l’avversione a ogni autorità, Giorello dovrà convenire di condividere la comune condizione umana: chi filosofa non parte dal nulla, ma assume, almeno inizialmente, qualche dato saputo da altri (per esempio che esista il mondo, che la realtà sia in parte conoscibile, che ogni effetto abbia una sua causa, che una tesi contraddittoria sia falsa, eccetera). In questo senso, ogni filosofo è anche un “credente”, in quanto si affida a un’autorità quando integra nella riflessione razionale che svolge delle informazioni sul mondo e sull’esistenza che conosce, almeno inizialmente, affidandosi fiduciosamente a qualcuno. Inoltre, l’autorità entra nel percorso della conoscenza anche attraverso la tradizione, sia perché chi filosofa lo fa sempre a partire da un tessuto storico, i cui fili, provenienti dal passato, sono la premessa necessaria per la comprensione del presente; sia perché, nel compito del filosofo, rientra anche l’esame delle condizioni concrete in cui si svolge l’esistenza dell’uomo nella storia. Perciò in qualsiasi modo l’uomo non può sottrarsi all’autorità, può solo ribellarsi; in ciò i greci vedevano la ubris, la tracotanza di chi pretende di poter vivere di sghembo, fuori e contro l’ordine che c’è nell’essere; i cristiani, come Giorello sa bene, vedono in questo atteggiamento l’illusione dell’insipiente.
«La contrapposizione affermata dall’illuminismo tra fede nell’autorità e uso della propria ragione è in sé corretta. Nella misura in cui il valore dell’autorità prende il posto del nostro giudizio, l’autorità è di fatto una fonte di pregiudizi. Ma con questo non è escluso che essa possa anche essere una fonte di verità, ed è questo che l’illuminismo ha misconosciuto con la sua indiscriminata diffamazione dell’autorità. […] l’autorità delle persone non ha il suo fondamento ultimo in un atto di sottomissione e di abdicazione della ragione, ma in un atto di riconoscimento e di conoscenza, cioè nell’atto in cui si riconosce che l’altro ci è superiore in giudizio e in intelligenza […]. Essa si fonda su un riconoscimento, e quindi su un’azione della ragione stessa, che, consapevole dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio di altri. Questo senso dell’autorità non ha nulla a che fare con la cieca sottomissione a un comando».
(Hans George Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, 199711, pp. 327-328)
Giulio Giorello, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo, Longanesi, 2010.
Giacomo Samek Lodovici, Chi disprezza la fede disprezza sè stesso, in il Timone, n. 29 (2004), p. 32-33.
Hans George Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, 199711, pp. 312-334.
IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 32 – 33
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