La questione fondamentale attorno a cui ruota il dibattito al Sinodo è se sia possibile o meno un cambiamento morale, possibilità di cui si è sempre più dubitato dalla Riforma protestante in poi.
Eppure la tradizione cattolica ci dice che la conversione è ciò a cui siamo chiamati
Tra tutte le polemiche che hanno preceduto il Sinodo sulla Famiglia dello scorso ottobre, e anche a quelle che si sono svolte mentre era in corso, almeno una cosa si è chiarita: le divergenze di opinione sono di natura alquanto fondamentale e in parte hanno radici molto profonde, spesso anche più di quanto gli stessi partecipanti al dibattito si rendano conto, tanto che essi si domandano meravigliati perché stiano parlando di cose diverse. Ad esempio, quando il cardinale Walter Kasper, prima dell’apertura del Sinodo, ha tirato fuori dalle tenebre della storia una mozione di più di venti anni fa sull’ammissione ai sacramenti dei separati che hanno contratto un secondo matrimonio civile, si è visto muovere obiezioni alle quali ha reagito non già con argomenti, bensì con incomprensione. Egli ha infatti sostenuto prima che quanti lo criticavano volevano coinvolgerlo «in
una discussione fantasma» che nulla aveva a che fare con ciò che egli aveva veramente scritto (è quanto Kasper ha affermato, in modo cortese, in un’intervista a Kath.net pubblicata il 22 aprile 2014, riferendosi a un’osservazione del professor Juan José Pérez- Soba), e poi che essi proponevano «un fondamentalismo teologico non cattolico» (è quanto ha affermato, meno cortesemente, in un’intervista pubblicata dal quotidiano argentino La Nación del 29 settembre 2014 a pagina 2, con riferimento ai cardinali e vescovi che si erano permessi di esprimere un parere contrario al suo).
Conversione e pentimento
Perché sembra che tutti stiano parlando di cose diverse? Quali sono le questioni antropologiche fondamentali più profonde su cui poggiano queste divergenze di opinione?
A mio modo di vedere, la prima è la questione della possibilità della conversione, del cambiamento morale. Gli uomini hanno violato i Dieci Comandamenti fin da quando Dio li ha rivelati a Mosè. Ma a pochi è venuto in mente che, per questo motivo, bastasse semplicemente cambiarli. Finora si è pensato piuttosto che la soluzione al problema della trasgressione della legge fosse la conversione. Ed effettivamente lo stesso David, uomo vicino al cuore di Dio, commette adulterio, e già che c’è perpetra anche un omicidio. E Dio come tratta il peccatore David? Dio si mostra misericordioso.
Ma la sua misericordia non significa abbassare semplicemente l’asticella di un po’. La sua misericordia consiste piuttosto nel chiamare alla conversione il peccatore che Egli ama, proprio perché lo ama, e di ricondurlo alla vita in seno al suo patto. E così, il Signore invia a David il profeta Nathan. Che cosa dice Nathan al re? Gli dice forse: «Sei fortunato: ieri Dio ha deciso che l’adulterio non è più peccato»? Non l’avrebbe mai detto, perché i Comandamenti di Dio non sono arbitrari, bensì esprimono una verità su ciò che è veramente buono per noi. Dio proibisce l’adulterio perché la fedeltà coniugale è un bene e l’adulterio è un male per tutti gli interessati. E che cos’altro può dire Nathan a David? Gli dice forse: «Dio sa che tu sei come sei, ma non fa niente, perché la misericordia di Dio copre tutti i peccati»? No, il profeta non dice neanche questo, e comunque sarebbe troppo poco misericordioso: la misericordia di Dio è molto più grande di così. Egli cioè non si accontenta di coprire i peccati del peccatore: piuttosto, chiama il peccatore alla conversione per renderlo veramente buono dall’interno e per riconciliarlo a Sé. Dio non dà David per perduto.
Dunque il profeta Nathan racconta una storia a David e poi gli chiede che cosa ne pensa. Allora David afferma: «Chi ha fatto questo merita la morte» (2 Sam 12,5). Insomma, si condanna da solo alla pena capitale. Quando Nathan gli dice: «Tu sei quell’uomo!» (2 Sam 12,7) David gli dà una risposta davvero stupefacente. Lui, il potente re, eroe di guerra e benefattore di Israele, dà ragione al profeta: «Io ho peccato contro il Signore!» (2 Sam 12,13). Ancor oggi, nelle Laudi del venerdì la Chiesa recita il Salmo 50, cioè la preghiera formulata da David con cui egli riconosce i suoi peccati e se ne pente, e grazie alla quale alla fine si riconcilia con Dio.
La deriva protestante
Tutta la tradizione giudaico-cristiana degli ultimi tre millenni si attiene a questo: l’uomo, per quanto possa sbagliare e peccare, ha pero la possibilità di riconoscere il bene, di convertirsi, di cambiare. Nostro Signore Gesù comincia egli stesso il suo servizio pubblico nel momento in cui predica questo semplice messaggio: ≪Il regno di Dio e vicino. Convertitevi e credete al Vangelo ≫ (Mc 1,15). E sebbene tutte le Scritture parlino molto chiaramente della possibilità di una conversione che cambia la vita, di questa possibilità si e ripetutamente dubitato a partire dall’epoca della Riforma. Si
e pensato cioè che la natura umana fosse del tutto corrotta. Secondo Lutero, l’uomo sarebbe al tempo stesso peccatore (perché corrotto di natura) e giusto (perché assolto dal castigo per effetto della grazia). Basterebbe quindi la sola fede per diventare beati.
Secondo questa tesi, cioè, nessun peccato potrebbe separarci dall’Agnello di Dio, ≪quand’anche fornicassimo e uccidessimo mille volte al giorno≫ (Lettera di Martin Lutero a Filippo Melantone, 1° agosto 1521, n. 424).
Da qui nasce anche la distinzione protestante fra ethos del mondo ed ethos della salvezza. L’ethos della salvezza e l’ideale irraggiungibile che serve a rammentarci che siamo peccatori. L’ethos del mondo e la morale dell’essere umano cosi com’è, sudicio peccatore. E una morale che tiene conto delle debolezze dell’essere umano e non pretende troppo da lui, affinché non si scoraggi. Pertanto non occorre che cambi, ma soltanto che riconosca di essere un peccatore. Quindi l’ethos del mondo assicura semplicemente che si eviti il peggio; e l’ethos della deroga, dell’adattamento, del soppesare mali diversi. L’idea fondamentale da cui parte e che l’uomo e incapace di fare il bene.
Convivenza e matrimonio
Qui dunque c’è anche l’interrogativo di fondo che tutta la Chiesa si pone: l’essere umano può cambiare? E possibile riconoscere e fare il bene? E possibile la conversione, cioè un cambiamento concreto del proprio modo di vivere? L’uomo può esservi invitato, oppure ciò significa pretendere troppo da lui? La misericordia non può voler dire lasciare gli esseri umani la dove sono, ma piuttosto mostrargli una via che sia veramente percorribile e che conduca a una vita nella pienezza. Noi additiamo quella via, oppure ci accontentiamo se un uomo e una donna si promettono non tutta la vita, ma qualche anno? Ci vediamo già qualche cosa di “buono”, come suggerisce, al n. 36, la Relatio post disceptationem sinodale (che non e certo un documento del magistero, ma aveva il solo scopo di riassumere il dibattito svoltosi nella prima settimana del Sinodo)?
Eppure convivenza e matrimonio sono due cose qualitativamente diverse, che seguono impostazioni completamente differenti. L’una non sfocia naturalmente nell’altro. Per passare dalla convivenza al matrimonio e necessaria una radicale conversione del modo di pensare. Non e assolutamente vero che la convivenza di per se sia una buona cosa ma abbia qualche piccolo difetto che bisognerebbe tollerare per misericordia. La convivenza danneggia tutti gli interessati:
i partner, che fanno esperimenti l’uno con l’altro, e ciò facendo ledono la loro dignità personale e quella dell’altro; i figli che eventualmente ne possono nascere, i quali non hanno alcuna certezza che l’amore che li ha messi al mondo duri nel tempo; la società, per la cui edificazione la faccenda tutta privata della convivenza ha scarsa utilità.
Il presidente della Conferenza Episcopale polacca, l’Arcivescovo di PoznaÅ„ StanisÅ‚aw Gadecki, ha dichiarato alla sezione polacca della Radio Vaticana una cosa evidente: che la Relatio post disceptationem era ≪inaccettabile ≫ e che compito del Sinodo e ≪sostenere pastoralmente la famiglia, non colpirla ≫ (cfr. Kath.net: Polnischer Episkopatsvorsitzender: Die Relatio ist “inakzeptabel”, 14 ottobre 2014).
Per giunta, la Chiesa non ha proprio niente da nascondere nel suo insegnamento sul matrimonio e sulla famiglia. Nel primo Instrumentum Laboris del Sinodo dei Vescovi si legge che la conoscenza di questo insegnamento sembra essere generalmente scarsa. Tuttavia, ≪un buon numero di Conferenze Episcopali≫ nota che ≪la dove si trasmette in profondità, l’insegnamento della Chiesa con la sua genuina bellezza, umana e cristiana, e accettato con entusiasmo da larga parte dei fedeli≫ (n. 13). L’idea di un amore che si dichiara pubblicamente, che dice ≪per sempre ≫, che e esclusivo e fecondo, e una buona novella: un vangelo. E ancora ciò cui gli uomini più anelano. Soltanto che i nostri contemporanei non credono più che un amore siffatto sia possibile. Allora diciamo loro: un amore cosi e possibile. Gesù ci da un cuore nuovo. Egli ci trasforma dall’interno e ci rende possibile essere fedeli.
(*) Questo articolo e la traduzione di una parte del saggio pubblicato in tedesco in Kirche heute 11 (2014): 6-8 sotto il titolo: “Wer ist der Mensch? Das Evangelium der Familie in der Synodendebatte”. â–
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