Il Papa è preoccupato di fronte alla «dittatura del relativismo» e alla sua penetrazione fra i cattolici. E offre indicazioni per porvi un argine.
Eccone una sintesi.
È legittimo pensare che la preoccupazione della «dittatura del relativismo» sia, se non la prima, fra le maggiori di papa Benedetto XVI?
E se è così i cattolici che cosa devono fare per arginare e superare questa situazione?
O meglio, che cosa il Papa ha previsto e ha cominciato a proporre nei primi tre anni di pontificato? Proviamo a cercare indicazioni nel suo Magistero e nei gesti che accompagnano il suo pontificato, senza nessuna pretesa di completezza, ma soltanto cercando di essere in sintonia, o meglio di trasmettere le indicazioni di chi ha il mandato di guidare la Chiesa.
1. Anzitutto bisogna osservare che la «dittatura del relativismo» è un fatto culturale che necessita di una risposta nel suo terreno specifico, appunto la cultura. Il cardo Ratzinger, poche ore prima di diventare Benedetto XVI, nella omelia della messa pro eligendo Romano Pontifice, il18 aprile 2005, coniava questa espressione e la collocava come ultima tappa del susseguirsi di ideologie che hanno attraversato il XX secolo: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come CI> :::!: l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Si tratta di quella mentalità che fa dire a un quindicenne qualsiasi – con la stessa enfasi con cui esprime il suo tifo per la squadra del cuore – che la verità non esiste oppure che ciascuno ha la sua e che quindi non va “seccato”, il giovanotto, con la pretesa di comportarsi in un certo modo piuttosto che in un altro, perché il dovere discende dall’essere, ma se la verità non c’è non si capisce a quale comportamento il giovane dovrebbe attenersi. Ora, questa mentalità domina la cultura contemporanea almeno dalla caduta del muro di Berlino (1989) ed è diventata un luogo comune che ispira i comportamenti, le decisioni, lo stile di vita dei più, e non soltanto dei giovani. Dittatura significa che il relativismo viene imposto con modalità non più violente, ma attraverso un modo di pensare e di vivere che si diffonde soprattutto per contagio, anche se ha i suoi maestri, i cultori del cosiddetto pensiero debole. Inutile dire che il relativi sta, normalmente pacifico e politicamente correttissimo, ama ritrovare l’aggressività del tempo delle ideologie soltanto quando incontra qualcuno, come i Pontefici, che “giocano la propria vita” sull’esistenza di una Verità, capace di salvare e di rendere felici.
2. Questa mentalità è penetrata anche nel modo di pensare e di vivere di molti cattolici.
Il Papa lo ha ricordato recentemente parlando della secolarizzazione e del secolarismo: «Questa secolarizzazione non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall’interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell’immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale» (8 marzo 2008).
3. Il rimedio non può essere uno slogan, ma la diffusione di una mentalità, di una cultura che predisponga le persone ad accogliere il Vangelo della salvezza; e tutto questo necessita di molto tempo per potersi realizzare nei singoli e soprattutto nel senso comune di un popolo. Lo ricordava Benedetto XVI, sempre nel discorso dell’8 marzo, riprendendo il servo di Dio Giovanni Paolo II e la sua consapevolezza «dei cambiamenti radicali e rapidi delle società» e dunque dell’«urgenza di incontrare l’uomo sul terreno della cultura per trasmettergli il Messaggio evangelico»: come dire, se non vogliamo perdere la possibilità di evangelizzare, dobbiamo essere in grado di comunicare con gli uomini di oggi, partendo dalle loro categorie culturali, affinché scoprano il desiderio e il bisogno della verità.
Ritenere di poter uscire da questa dittatura del relativismo attraverso facili e veloci soluzioni sarebbe una illusione: se l’errore è penetrato tanto a fondo nel corpo sociale da diventare un luogo comune, potrà essere sconfitto soltanto da un’opera educativa altrettanto profonda. Un’opera che cominci a rivolgersi anzitutto alla ragione dell’uomo, come il Papa ha ricordato nel discorso di Ratisbona il 12 settembre 2006, e come ripete continuamente nei diversi interventi del suo pontificato, perché solo rivolgendosi a ciò che tutti gli uomini hanno in comune, a qualsiasi religione o cultura appartengano, sarà veramente possibile un «dialogo con i movimenti culturali di questo nostro tempo», «nella ricerca di un autentico umanesimo» (discorso dell’8 marzo). L’esito di questo dialogo sarà l’individuazione di quei «principi non negoziabili» attorno ai quali soltanto sarà possibile una autentica convivenza fra persone di religione e cultura diverse. È una sfida difficile, che cerca il dialogo e non la contrapposizione, ma è l’unica alternativa allo scontro di civiltà.
Questa opera di trasmissione culturale deve cominciare anzitutto dai cattolici. È stupefacente come spesso capiti di incontrare comunità e persone impegnate anche ad alto livello nella vita pastorale così timide e incerte sulle caratteristiche missionarie della loro fede. Quasi che desiderare di comunicarla al prossimo sia il peggiore dei delitti.
Come se chi professa la religione della verità e dell’amore possa ignorare il desiderio di comunicare quello che ha ricevuto, il dono più grande, la fede in Gesù Cristo figlio di Dio. E come se da questa fede non derivassero conseguenze culturali e civili, di per sé laiche, cioè comprensibili anche alla sola ragione, ma necessarie per costruire una società vivibile.
Il Papa comunica le sue indicazioni anche attraverso gesti, oltre che per mezzo dell’insegnamento magisteriale. In questa ottica mi piace leggere il battesimo di Magdi Allam avvenuto la notte di Pasqua a Roma, in san Pietro. Un battesimo che ha avuto ripercussioni mondiali, come era prevedibile, e con il quale Benedetto XVI ha voluto affermare universalmente il principio fondamentale della libertà religiosa, che presuppone il diritto di ogni persona di scegliere liberamente e di praticare pubblicamente (e quindi anche di cambiare) la religione che ha scelto. Il Papa ha voluto ricordare a tutti gli Stati, anche a quelli che applicano la sharia e prevedono la condanna a morte per chi abbandona l’islam, che questo diritto deve essere tutelato dall’autorità pubblica, se si vuole coltivare un dialogo autentico.
Ma con quel gesto ha forse anche voluto dire qualcosa ai cattolici e alla loro tiepidezza: il Signore Gesù va annunciato a tutti, senza toni esagitati, senza forzature, ma anche senza incertezze. Se amiamo veramente quanto abbiamo ricevuto nella fede non possiamo non desiderare che anche altri ricevano questo dono, a cominciare da coloro ai quali siamo più affezionati. Questa è la logica dell’amore. E quando qualcuno chiede di essere accolto nella famiglia che è nata di questa fede, perché non gioirne?
La logica soggiacente alla volontà di dare risalto al battesimo di Magdi Cristiano Allan è la stessa presente nella preghiera per gli ebrei «affinché conoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini», voluta dal Pontefice e dal 4 febbraio scorso presente nella liturgia del venerdì santo celebrata secondo i Messale del 1962.
RICORDA
«lnoltre l’azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari. Il Signore non ci ha detto “Predicate il Vangelo ad ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama” (cf MI 16,15). Chi ci contestasse la legittimità o anche solo l’opportunità di questo annuncio illimitato e inderogabile, peccherebbe di intolleranza nei nostri confronti: ci proibirebbe infatti di essere quello che siamo, vale a dire “cristiani”; cioè obbedienti alla chiara ed esplicita volontà di Cristo».
(Card. Giacomo Biffi, Intervento al Semina rio della Fondazione “Migrantes”, 8010gni 30/09/2000).
Il discorso di Benedetto XVI dell’8 marzo 200B era rivolto all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura. Si può leggere, come il testo dell’omelia della messa pro eligendo Romano Pontifice, sul sito della Santa Sede
www.vatican.va .
La Nota della Segreteria di Stato contenente le disposizioni del Santo Padre circa l’Oremus et pro ludaeis si trova in L’Osservatore Romano del 6 febbraio 2008.
IL TIMONE N. 73 – ANNO X – Maggio 2008 – pag. 58-59