Tiriamo un po’ le somme a proposito di Pellevoisin, apparizione su cui ci sarebbe molto altro da dire ma che, in tre puntate, abbiamo esaminato almeno nella struttura fondamentale e nella prospettiva “lourdiana” che più ci interessava. Lo straordinario «Sono venuta per terminare la festa», la festa, cioè, della consacrazione della basilica e della statua della Immacolata Concezione ai piedi dei Pirenei; la lettera a Maria infilata nella riproduzione della Grotta; il numero delle apparizioni, con la conclusione l’8 dicembre.
Tutto questo (ed altro ancora, tra cui il contenuto dei messaggi ad Estelle, con l’appello ripetuto a pregare per i peccatori) potrebbe confermare quanto hanno osservato alcuni studiosi: Lourdes, cioè, sembra costituire quello che potremmo definire “l’Evento centrale” nel ciclo delle apparizioni mariane, e non soltanto di quelle del XIX secolo. In effetti, Fatima pare inaugurare una nuova tappa della straordinaria presenza della Madre della Chiesa in mezzo a quella Chiesa stessa che è ancora in hac lacrimarum valle. In verità, a ben guardare, pure nel Portogallo del 1917 non mancano i collegamenti con l’avventura di cui testimoniò Bernadette, a cominciare dalla figura dei veggenti e in tanti dettagli che possono sfuggire a chi è meno attento, ma che costituiscono come dei “segnali”, dei cenni di rimando a Massabielle. Del resto, come ben sappiamo, è così – «per ombre ed enigmi», per dirla con Paolo – che agisce il Deus absconditus della Bibbia.
Comunque sia per Fatima (e non escludo di ritornarci sopra, una di queste volte) e per stare a Lourdes, questa è certamente preannunciata dalle apparizioni del 1830 a Cathérine Labouré, cui la Vergine chiede di far coniare la celeberrima medaglia con la scritta che richiama alla Immacolata Concezione: «Oh Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi». Dopo il preannuncio, il seguito, a Pellevoisin, come abbiamo visto. Ma in uno studio che ho pubblicato in Ipotesi su Maria, ho mostrato, credo con buoni argomenti, che le apparizioni belghe di Banneux del 1933, anch’esse ufficialmente riconosciute dalla Chiesa, sono un prolungamento e quasi un “completamento” di quelle di Lourdes.
Anche questa “centralità” gioca a favore, naturalmente, della verità dell’evento del 1858, ammesso che siano necessarie conferme di quei fatti – e di quella figura di messaggera – così limpidamente evangelici. Ma, oltre alle conferme, da buoni apologeti occupiamoci stavolta di una difficoltà – una obiezione valutata come grave – utilizzata spesso da coloro che vorrebbero incrinare la credibilità di quanto avvenuto sotto la grotta di Massabielle. In effetti, anche in pubblicazioni recenti, se non recentissime, mi è capitato di trovare titoli “strillati” del tipo: «Documenti riemersi dagli archivi dimostrano che quella di Bernadette era una montatura architettata dai parenti». Qualche lettore mi ha confidato di essere stato turbato da questi sedicenti scoop. Vediamo allora come sono andate davvero le cose.
Il commissario di polizia a Lourdes, Dominique Jacomet, al tempo delle apparizioni, era un uomo giovane e vigoroso di 36 anni, temuto e al contempo rispettato, anzi da molti amato, per la sua severità ma anche per la sua umanità. Al tempo del colera che colpì pure Bernadette bambina – che, malcurata e denutrita, ne portò le conseguenze per tutta la vita, nell’asma, nel rachitismo, nei disturbi alimentari – era andato al di là del proprio dovere, prodigandosi per i malati al punto di non temere l’infezione e di strofinarli vigorosamente sul dorso con certe lozioni, come consigliavano i medici dell’epoca. Ma, uomo d’ordine, sia per mestiere che per carattere, fu, come si sa, sempre sospettoso e inflessibile nei confronti di Bernadette: era infatti convinto (come tutti o quasi, del resto, all’inizio delle apparizioni) che quella quattordicenne che sembrava una bambina di dieci anni fosse o una povera visionaria isterica o lo scaltro strumento di una montatura. Del resto, era stato proprio lui ad arrestarle sotto gli occhi, meno di due anni prima, il padre, accusato di avere rubato due sacchi di farina e una tavola di legno. Diffidava, comunque, di tutta la famiglia Soubirous che sospettava, da certe voci calunniose messe in giro, di esser dedita all’alcol. Si pensi che proprio lui, nell’interrogatorio di cui parleremo, si spinse a dare della “ubriacona” perfino a Bernadette, lei che, tra l’altro, vomitava quasi tutti i cibi per le condizioni del suo stomaco! In realtà, sia il marito che la moglie bevevano sì, ma per far festa ai clienti che frequentavano il loro mulino. Il vino serviva per annaffiare le ricche colazioni e merende che i due servivano, gratis, a chiunque venisse a trovarli, sia per amicizia che per lavoro. Inoltre, macinavano gratis per i bisognosi e accettavano di far credito anche a chi era noto per non pagare i suoi debiti. Una gestione spensierata che porterà poi alla rovina della famiglia. Comunque, gli stessi che sussurravano che i Soubirous erano dei beoni, scambiando per vizio quello che era solo spensieratezza e convivialità ammettevano che mai avevano visto uno di loro ubriaco. E ammettevano pure che la miseria in cui si trovavano non gli avrebbe certo permesso di comprare quel vino che a Lourdes era particolarmente caro, non essendo un prodotto locale, visto che suolo e clima erano, e sono, inadatti ai vigneti.
Per tornare a Jacomet, resta il fatto che anche simili voci negative sulla famiglia lo rendevano particolarmente sospettoso. Come si sa, con la sua severità inflessibile (che però è stata provvidenziale, dandoci molta documentazione preziosa) finì col diventare inviso alla gente che in maggioranza, dopo lo sconcerto iniziale, parteggiava con la veggente e assisteva sempre più numerosa ai suoi misteriosi colloqui alla grotta. Verrebbe quasi da pensare che Bernadette è sì una icona fedele del Vangelo. Lo è in tutto, tranne che nell’adempimento, in lei, della parola di Gesù sul «nessuno è profeta in patria». In realtà non le mancò, sin quasi da subito, la simpatia, anzi l’affetto, la fiducia, il sèguito dei suoi concittadini e, se dovette andare via da Lourdes, è anche perché la sua umiltà non sopportava la venerazione spesso indiscreta che la circondava. La sola parola forte che le scappò («Che idiote!») fu per certe compaesane devote che cercavano di strapparle una ciocca di capelli o di tagliuzzarle la gonna per conservarle come reliquie. Quando se ne andò verso Nevers, per non ritornare più, ci fu rammarico sincero tra la gente. Naturalmente, c’era il gruppo degli scettici inguaribili ma si trattava di pochi borghesi e qualche raro intellettuale che si atteggiava a “spirito forte”. Per tornare a Jacomet: addirittura ci fu una sorta di complotto tra molte donne del popolo, che progettarono di assaltare la casa del commissario per dargli “una bella lezione” per la severità con cui trattava u petitò, la piccola, in dialetto locale.
Il poliziotto, in realtà, era un irreprensibile cristiano, oltre che una persona buona e onesta, ma sentiva che il suo dovere gli imponeva di allontanare ad ogni costo i pericoli di truffe o di disordini che gli sembravano portati da quella strana storia. Talvolta esagerava ma sostanzialmente aveva ragione nel voler andare a fondo. Sta di fatto che, alla fine di quel 1858, fu trasferito lontano, a Marsiglia, poi a Lione, per finire la carriera a Parigi, dove morì nel 1873, munito dei sacramenti, chiesti con la convinzione di quel credente che era. Trasferito, dico, non punito, perché sarebbe stato ingiusto sanzionare un funzionario che aveva fatto rigorosamente il suo lavoro, ma perché considerato inadatto a risiedere ancora tra gente che, dopo averlo ammirato, ora lo guardava con rancore. Andandosene da Lourdes, portò con sé l’archivio che considerava suo personale, a cominciare dalle minute dei suoi rapporti ai magistrati, al prefetto, al parroco. Vi erano anche molte altre carte, considerate preziose dagli studiosi, ma che non fu mai possibile ottenere né da lui né dalla vedova, che non voleva più sentire parlare di Lourdes che aveva dato clamorose amarezze al marito e a lei.
Raccogliendo, in vista del centenario del 1858, la sua monumentale collezione di documenti autentici sulle apparizioni, l’abbé René Laurentin dava per perduto o, comunque, irraggiungibile per gli storici, il “fondo Jacomet”. Invece, nel 1957, proprio mentre stava per dare alle stampe i due primi volumi della grande opera, ecco la sorpresa inaspettata e graditissima: un prete, che per vie complicate aveva ricevuto in eredità i documenti del commissario, li inviava, in punto di morte, al santuario di Lourdes. In quelle carte non vi erano, in realtà, rivelazioni particolari, tranne che per un caso che, sulle prime, mise in imbarazzo Laurentin, il quale ne avvisò subito il vescovo, l’energico mons. Théas, il quale gli replicò d’andare avanti senza paure ed esitazioni perché, ripeté, come quando aveva dato l’incarico del lavoro al giovane don René: «Lourdes ha bisogno solo di verità».
Di che si trattava? Vediamo. Domenica, 21 febbraio 1858, Bernadette va all’alba alla grotta e ha un’estasi silenziosa: contempla Aquerò, senza che questa dica alcuna parola destinata ad essere rivelata. Forse scambia qualche frase con la veggente, ma a proposito dei “segreti” che sono solo per lei. All’uscita dalla chiesa parrocchiale, dopo i vespri, nel primo pomeriggio, la piccola è presa in consegna dalla guardia campestre che la conduce a casa del commissario.
L’interrogatorio che ne seguirà ricorda davvero la promessa di Gesù: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come colombe. (…) E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come e di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento che dire: non siete infatti voi a parlare ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,16-20). Bernadette, in quello scambio di parole davanti all’inquisitore irritato e agitato, unisce l’umiltà alla forza, il rispetto al coraggio, tanto che le sue parole sconcertano, spiazzano, mettono addirittura in difficoltà quell’ancor giovane ma già vecchia volpe che è Jacomet. Non batterà ciglio, chiusa nel suo silenzio, neanche quando le sarà detto che un gendarme la condurrà in prigione, visto che non si è lasciata convincere a non rispettare la promessa fatta ad Aquerò di andare a Massabielle per quindici giorni. Alla fine, il commissario non ottiene nulla di quel che voleva: che la ragazzina confessi di essersi sbagliata e che prometta di non andare più alla grotta. Anzi, deve affrettarsi a chiudere il lungo interrogatorio perché la gente di Lourdes si è assiepata davanti al portone, vi batte sopra con i pugni e grida che la piccola deve essere liberata.
Ebbene: conoscevamo l’andamento delle domande di Jacomet e delle riposte della inquisita dal testo ufficiale inviato dal commissario al prefetto di Tarbes. Un testo, il suo, in bella e buona calligrafia, come d’uso nei documenti dell’amministrazione francese, soprattutto in quei tempi di Impero napoleonico risuscitato. Grazie ai documenti giunti inaspettatamente nel 1957, l’abbé Laurentin poté disporre, per primo, del brouillon, la minuta, la brutta copia gettata giù da Jacomet mentre aveva di fronte la veggente. Da qui, la sorpresa sconcertante: Bernadette avrebbe ritrattato, avrebbe accusato i genitori di costringerla a una commedia! In effetti, la ragazzina avrebbe detto testualmente («piangendo a calde lacrime») al commissario che le imponeva di non farsi più vedere dalle parti di Massabielle: «Sia come voi dite, signore! Vi prometto di non andare alla grotta ma vi domando una grazia: papà e mamma sono dall’altra parte, bisogna che gli vietiate di forzarmi di andare alla grotta, ne sono stanca, non voglio più andarvi!». Pochissime righe, queste scritte da Jacomet, ma in grado, se autentiche, di fare cadere tutta la verità su Lourdes.
In realtà, non è stato difficile – dopo il primo sconcerto – dimostrare in modo del tutto sicuro che questa presunta ritrattazione non è altro che un escamotage poliziesco e nulla più. Lo conferma lo stesso Jacomet, visto che della frase della minuta non vi è traccia nella “bella copia” per il prefetto. La “confessione” è sparita sia in questo documento che in tutti quelli che seguiranno: il commissario non ha mai usato la ritrattazione che pure gli avrebbe permesso di chiudere il caso. Ma la frase è falsa anche perché è vero il contrario di ciò che vi si afferma: ben lungi dallo spingerla alla grotta, i Soubirous tentarono in tutti i modi di impedirle di andare. Ci sono testimoni a iosa per questa opposizione: la Bernadette “vera” soffrì non perché la spingessero alla grotta, ma perché cercarono di trattenerla mentre una forza irresistibile la convocava là.
Il solito don Laurentin (e che Dio lo benedica per questo suo prezioso, infaticabile lavoro!) ha notato che la finta confessione è aggiunta isolata, alla fine della minuta dell’interrogatorio, ed è scritta in caratteri doppi rispetto al resto. Anche questo conferma che Jacomet aveva organizzato una delle “finte” abituali del suo mestiere di poliziotto.
Ecco, dunque, come il nostro abbé ha ricostruito la scena, basandosi sui dati documentari sicuri. François Soubirous, il padre, che era in mezzo alla folla che batteva alla porta, fu fatto entrare nella casa del Commissario, mentre Bernadette attendeva serena in salotto il gendarme che l’avrebbe portata in prigione. Sappiamo che François non era per temperamento un coraggioso e che, soprattutto, temeva Jacomet che già una volta lo aveva arrestato.
Traduciamo dalla ricostruzione di Laurentin:
«Ebbene, père Soubirous, sono contento di vedervi. Stavo per mandare la guardia a cercarvi, perché questa commedia non può più durare. Voi attirate la gente da voi».
«Ma…».
«Ora so tutto, so che la piccola stessa non ne può più di questa gente che le corre dietro. Ne ha abbastanza che voi la forziate di andare laggiù».
«La forziamo? Ma noi abbiamo fatto di tutto per impedirglielo!».
A questo punto, si capisce perché il commissario aveva scritto in lettere doppie del normale la falsa ammissione di Bernadette: per mostrarle al semianalfabeta François e facilitargli la difficoltosa lettura, aggravata anche dall’occhio perduto per una scheggia di pietra quando lavorava come giornaliero nelle cave.
«Vedete un po’, Soubirous, quello che vostra figlia ha ammesso piangendo».
Decifrate quelle righe terribili, il padre è smarrito, spaventato. Il commissario prende allora un tono comprensivo, di chi vuole aggiustare le cose “in famiglia”, come ha detto a Bernadette.
«Sentite, François, farò finta di credervi. Ma voi non mandate più vostra figlia in quella grotta. Se non mi ascoltate, saprò che cosa fare. Non avrete mica l’intenzione di ritornare in prigione, vero? A me dispiacerebbe rimettervi dentro, ma non obbligatemi!».
«Mio Dio, signor commissario, non chiedo di meglio che obbedirvi, perché è vero che non ne possiamo più di ricevere dei rimproveri su nostra figlia e di avere casa nostra invasa dai curiosi. Il vostro ordine arriva a proposito. Chiuderò la porta in faccia alla gente e Bernadette non andrà più laggiù».
Commenta Laurentin: «Eccolo, dunque, il successo strappato all’ultimo momento dal navigato Jacomet. Raggiunto l’accordo, si concede il lusso di congratularsi con Soubirous per i suoi buoni propositi e congeda lui assieme alla figlia. La quale – tenuta nel salotto mentre il colloquio tra i due uomini si era svolto nell’entrata – non ha sentito e, quando saprà che cosa le è attribuito, ne sarà sbalordita e addolorata. Jacomet, da parte sua, si mette subito alla scrivania e ricopia la minuta dell’interrogatorio per i suoi superiori. Non metterà però quanto ha scritto con lettere grandi, destinate solo al povero père Soubirous.
Non le trascriverà perché è severo ed energico ma non è disonesto, almeno sino al punto di inventare una confessione inesistente.
Questi, dunque i fatti. Tanto accertati che, tra gli storici, la questione da tempo è chiusa. Ma non lo è tra i polemisti di bassa lega e tra i giornalisti alla ricerca di scoop inesistenti. Il credente può stare sicuro: nessuna “rivelazione”, qui, è fondata. Bernadette non ha mai ritrattato ma – calma e forte, umile e tenace – ha sempre e solo testimoniato di avere visto e sentito. Possiamo fidarci
IL TIMONE N. 92 – ANNO XII – Aprile 2010 – pag. 64 – 66